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Di che disoccupazione sei?
di LORENZO BETTONI

[26 mar 08] Nelle ultime settimane si è riacceso in campo politico il dibattito sulle misure di “flexicurity”, intese come una combinazione integrata di politiche mirate alla flessibilità del lavoro e alla sicurezza dell’occupazione. I due principali partiti che partecipano alla competizione elettorale, pur con sfumature differenti, hanno sposato la tesi che la flessibilità nell'uso della forza lavoro sia un modo efficace per aumentare l'occupazione o, quanto meno, per salvaguardarne il livello durante congiunture difficili come quella in corso. Il medesimo dibattito, nell’ambito dell’analisi economica, è in corso da molto più tempo e vede in campo un numero di “schieramenti disciplinari” decisamente più elevato, con posizioni molto meno allineate. Il problema della rigidità dei salari viene per la prima volta analizzato da John Maynard Keynes nell’ambito della Teoria Generale. Secondo l’economista di Cambridge le contrattazioni non avvengono in termini reali ma monetari. Punto nodale della posizione keynesiana è che eventuali riduzioni del salario nominale non conducono al ripristino automatico della situazione ottimale. Una riduzione salariale in presenza di disoccupazione involontaria non solo sarebbe poco efficace, ma addirittura dannosa, poiché condurrebbe ad una diminuzione della domanda aggregata. Le ragioni della rigidità salariale sono da ricondursi all’ipotesi che gli individui non siano disponibili ad accettare riduzioni dei salari monetari ed alla presenza dei sindacati. Keynes, comunque, riteneva che il mercato del lavoro non avrebbe trovato il proprio equilibrio solo sulla base della negoziazione del prezzo d’uso delle prestazioni lavorative. Anche perché il sistema economico non era in grado di generare automaticamente la piena occupazione.

Le obiezioni agli assunti keynesiani sulla rigidità dei prezzi ed alla vischiosità dei salari si ritrovano nell’impianto di quella che successivamente è stata identificata come “sintesi neoclassica della teoria keynesiana”. Secondo i neoclassici è possibile ripristinare l’efficacia delle riduzioni salariali e dei prezzi ai fini del conseguimento di un più elevato livello di occupazione. La riduzione del livello generale dei prezzi, infatti, determina una rivalutazione della liquidità detenuta dalle famiglie e dalle imprese: da ciò all’aumento della domanda aggregata il passo è breve. I neoclassici, tuttavia, analizzano il problema in un contesto di comportamenti razionali ed ottimizzanti da parte degli individui, e risolvono in questo modo non pochi problemi. La disoccupazione risulta sempre volontaria, mentre una disoccupazione di matrice diversa sarebbe un fenomeno del tutto casuale. L’anello debole in questo costrutto risiede nella presunzione di razionalità degli attori individuali, che permette di prevedere i comportamenti individuali e collettivi senza la disponibilità di informazioni specifiche su ciascun soggetto economico. Ma l’idea keynesiana di un sistema economico autosufficiente ed armonico era già stata frantumata da Keynes. Anche le idee monetariste sono classificabili come neo-classiche perché implicano un ritorno all’ortodossia secondo la quale lo Stato deve assolutamente astenersi dall’influenzare la dinamica del sistema economico. Ma sono anche post-keynesiane, nel senso che riconoscono gli effetti reali delle variazioni nella massa monetaria.

La teoria monetarista è legata a doppio filo alla teoria quantitativa della moneta, utilizzata da Friedman per rovesciare le prescrizioni di politica economica della tradizione keynesiana. Sotto questa prospettiva analitica le conclusioni di Keynes sull’esistenza teorica di un equilibrio di sottoccupazione sarebbero prive di fondamento poiché, con prezzi perfettamente flessibili, non si dovrebbe manifestare un equilibrio di sottoccupazione. Shock della domanda aggregata possono provocare temporanee instabilità, ma i meccanismi “automatici” di riequilibrio evidenziati anche dalla teoria neoclassica sarebbero in grado di eliminare in modo efficace e rapido questi scompensi. La risposta della Nuova Economia Keynesiana ha origine con lo sviluppo dei modelli del disequilibrio, nel tentativo di fornire dei fondamenti microeconomici alla presenza di disoccupazione involontaria e di spiegare rigidità di salari e prezzi. Fondamentale è il contributo di Joseph Stiglitz, insignito del premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a George Akerlof, Michael Spence. Il filo conduttore delle ricerche premiate sta nel ruolo giocato dalle asimmetrie informative ad una diversa lettura del pensiero keynesiano. Nell’interpretazione tradizionale le forze di mercato sono incapaci di ristabilire una situazione di piena occupazione delle risorse a causa della rigidità dei prezzi e dei salari. Data l’assenza di prezzi perfettamente flessibili, il ripristino di una condizione di equilibrio avviene sul lato della quantità: diminuisce la domanda di lavoro da parte delle imprese e, di qui, il reddito e la domanda aggregata. Diversamente, nell’interpretazione del pensiero keynesiano data dagli economisti dell’informazione le fluttuazioni cicliche dipendono non tanto da una caduta della domanda aggregata, quanto da una diminuzione dell’offerta aggregata. Se, infatti, l’informazione sulla produttività dei lavoratori non fosse costosa, gli imprenditori pagherebbero un salario pari alla produttività marginale. I costi di informazione, tuttavia, esistono e per questo le imprese, pagando salari più elevati di quelli compatibili con la piena occupazione, incentivano i lavoratori a non abbandonare l’impresa o a disimpegnarsi.

Le implicazioni di politica economica sono inevitabili e rilevanti. Lo Stato assume un ruolo cruciale nel consentire il conseguimento del pieno impiego delle risorse, in particolare della risorsa lavoro. Il mercato, da solo, non garantisce in ogni caso il raggiungimento della piena occupazione; ciò nonostante, mentre nell’interpretazione tradizionale di Keynes basata sull’esistenza di rigidità nominali, misure volte a accrescere la flessibilità di prezzi e salari sono auspicabili, per l’economia dell’informazione interventi di questo tipo comportano delle criticità. Una più elevata flessibilità dei prezzi, nel rendere più ampi i trasferimenti di reddito e ricchezza conseguenti ad uno shock, può infatti amplificare gli shock macroeconomici, dilatando le fasi recessive. L’ingrediente principale della ricetta di Stiglitz è nel “ruolo dello Stato nell’economia”: bassi tassi di interesse e misure di politica fiscale espansive permettono alle imprese di sopportare rischi più elevati e, per questo verso, di aumentare la produzione, riducendo il tasso di disoccupazione. Lo Stato, inoltre, riveste un ruolo fondamentale nel creare quelle istituzioni indispensabili al pieno funzionamento dell’economia di mercato e nel garantire il suo intervento allorché i mercati falliscono nel compito di soddisfare i bisogni sociali. Il ruolo degli economisti consiste nel guidare lo Stato nel compito di discernere in quali casi, e con quali modalità, l’intervento pubblico nell’economia ha maggiori possibilità di essere utile. Come dire che il contributo più consistente alla formazione di un “ordine socioeconomico” sostenibile risiede nella ricomposizione, difficile, di un paradosso solo apparente: più Stato e più mercato affinché la “mano invisibile” di smithiana memoria non operi staccata dal braccio di un azione governativa che sappia cercarne e riconoscerne i fallimenti.


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