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Il Sessantotto degli altri / 3
di PIERLUIGI MENNITTI

[11 lug 08] Fu un anno intenso, il Sessantotto in Cecoslovacchia. Praga sembrava vivere allo stesso ritmo delle capitali occidentali scosse dalla contestazione giovanile. Come Parigi, Francoforte, Berlino Ovest e Roma. Come le università americane già qualche anno prima. Gli studenti che manifestavano nelle università avevano i loro idoli rock: amatissimi i componenti dell’Akord Klub, il primo gruppo cecoslovacco che richiamava folle di giovani nell’angusta sala del teatro Reduta, sempre a due passi da piazza Venceslao. Niente più musica ufficiale e canzonette di regime, ma chitarra acustica e batteria a tutto spiano. Uno spettatore di eccezione era Vaclav Havel, il drammaturgo che divenne simbolo del dissenso est-europeo, negli Anni Settanta fondò il gruppo Charta ’77 e nel 1989 si fece trovare pronto a prendere per mano il paese e condurlo, da presidente, fuori dal cono d’ombra del comunismo. Lo scrittore americano Paul Berman ne ha raccolto i ricordi di quei mesi: “L’atmosfera al Reduta era splendida – racconta Havel – e con quelle esibizioni era nato un sentimento specialissimo e cospirativo di comunanza che, per me, è quello che fa il teatro. Tutto cominciò qui e da qui”. E proseguì con il fiorire di altri gruppi rock, come i Plastic People of the Universe o gli Old Teeneger, e di altri luoghi di  ritrovo, come il teatro Semafor o altri piccoli teatri di provincia.

Nomi e suoni americani che rimbalzavano sgraditi alle orecchie dei reazionari nascosti dietro le quinte del partito e pronti a sabotare, appena se ne fosse presentata l’occasione, anche il timido (ma in quelle circostanze coraggioso) riformismo socialista di Dubcek. E se la scena studentesca preoccupava, quella intellettuale terrorizzava. Dai locali alcolici del rock alle sedi fumose delle riviste, il passo fu breve. L’unione degli scrittori fu la culla di una critica al comunismo ancora più radicale di quella portata dal gruppo politico riformista di Dubcek. E già nell’estate del 1967, in occasione del quarto congresso degli scrittori, vennero poste le basi per una rottura che sarebbe maturata nei mesi successivi sulle pagine dei periodici letterari. I due organi ufficiali degli scrittori, il “Literarni Listy” e il “Kulturny Zivot” accentuarono il loro profilo autonomo e pluralista, ospitando critiche assai dure dal gotha dell’intellighenzia ceca e slovacca, dallo storico Osvald Machatka al drammaturgo Vaclav Havel agli scrittori Milan Kundera, Zora Jesenska e Ludvik Vaculik. Il Manifesto delle duemila parole pubblicato da Vaculik nel giugno del 1968 accusava il partito comunista d’esser costituito da “avidi, egoisti, petulanti e uomini dalla coscienza sporca”. L’arbitrio del potere seguì di pari passo il declino delle libertà: “Il parlamento disimparò a dibattere, il governo a governare e i direttori a dirigere; le elezioni persero d’importanza e le leggi non ebbero più peso”. Nacquero numerose organizzazioni sociali, tra cui il Klub 231 e il Kan, il club degli impegnati senza partito cui aderì lo stesso Havel. E le università erano in fibrillazione e Dubcek avanzava proposte di riforma e lungo la Moldava sembrava di respirare la stessa aria della Senna.

O quasi. Perché mentre a Praga si denunciava l’arbitrio del comunismo in nome di un socialismo dal volto umano, a Parigi il filosofo Herbert Marcuse, una delle icone del Sessantotto occidentale, tuonava contro la primavera di Praga e il nuovo corso di Dubcek durante la commemorazione per i 150 anni della nascita di Karl Marx. Singolare sintonia con quanto, in silenzio, si stava preparando nelle stanze più segrete del potere sovietico. Praga e la sua rivoluzione gentile facevano paura proprio a quegli apparati che, secondo i cecoslovacchi, avevano usurpato ideali e libertà per pura sete di potere. Non fu un caso che a spingere la mano di Breznev furono soprattutto i leader comunisti di Polonia e Germania Est, di Bulgaria e Ungheria, preoccupati che il seme della primavera potesse germogliare anche da loro. Nei circoli del dissenso di Mosca e Leningrado, di Varsavia e di Berlino Est, la stagione praghese suscitava speranze ed emozione, e in qualche caso, anche piccoli, timidi atti di coraggio, come quello del russo Anatolij Marcenko che inviò una lettera ai giornali cecoslovacchi per denunciare la disinformazione in atto sulla stampa sovietica. Tutto inutile. La dottrina Breznev sulla sovranità limitata trovò per le strade di Praga la sua prima, concreta applicazione. Nessuna deviazione, nessun riformismo. Il comunismo avrebbe proseguito sulla strada ormai nota ma incespicando ancora una volta, a Danzica, sotto l’impeto sindacale di Solidarnosc. Fino al collasso del 1989. Sessantotto e Ottantanove. Due cifre capovolte e il mondo sottosopra. Se l’immaginazione al potere può essere raffigurata da una foto, nessuna può meglio testimoniare il genuino spirito del “Sessantotto degli altri” come quella dei giovani berlinesi che danzano ubriachi di gioia sul cornicione del Muro, nella notte più bella del Ventesimo secolo. (3. Fine).


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