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Reinaldo Arenas, l'anima ribelle di Cuba
di DOMENICO NASO

[10 lug 08] Se leggendo il nome di Reinaldo Arenas non riuscirete a capire di chi stiamo parlando, non vi sentite ignoranti né poco informati. Non siete gli unici. In Italia, infatti, quello che possiamo definire tranquillamente uno dei più grandi scrittori cubani del Novecento non ha mai avuto molta fortuna. Le cause di questo ostracismo sono molteplici, e sono tutte figlie di una certa impostazione settaria del nostro panorama culturale e letterario. Reinaldo Arenas, infatti, portava con se due difetti troppo grandi per i maitre-à-penser di casa nostra: troppo anticastrista per piacere alla sinistra, troppo gay per piacere alla destra. Arenas, nato nel 1943 nella provincia di Oriente, visse un’infanzia povera e quasi selvaggia, in una famiglia matriarcale, circondato da donne deluse dagli uomini e arrabbiate con la vita. Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza risulteranno poi fondamentali per la sua formazione, non solo letteraria e culturale, ma anche (e forse soprattutto) umana. Cresciuto mangiando terra e contemplando rapito ogni fenomeno della natura, Arenas scopre presto la propria omosessualità. E ben presto scopre anche la politica. Le prime influenze in questo senso provengono dal nonno, fervente sostenitore dei liberali negli anni del regime di Fulgencio Batista. La fortuna, o la sfortuna, di Reinaldo Arenas sta tutta nel fatto che gli anni della maturazione coincidono con la rivoluzione castrista. A quindici anni decide di unirsi ai ribelli, più per voglia di libertà che per reale adesione alle loro idee. Non darà un grande contributo alla lotta contro Batista, però sarà tra i primi a scendere in piazza per celebrare la fine della dittatura. Un’ebrezza libertaria tipica dei primi tempi di qualsiasi rivoluzione, ben presto svanita sotto i colpi del castrismo, rivelatosi un regime ancora peggiore di quello precedente.

Le disavventure umane e letterarie di Arenas traggono origine proprio dal periodo in cui la rivoluzione si trasforma in dittatura, con Castro che diventa vassallo dell’Urss e acerrimo nemico delle democrazie occidentali. Da questo momento in poi per lo scrittore comincia una ribellione interiore, intima ma mai privata e nascosta. Una ribellione che utilizzerà due valvole di sfogo, molto spesso fuse tra loro: il sesso e la letteratura. La ricerca del piacere sessuale sarà l’arma principale dell’Arenas dissidente, che nell’atto carnale vedeva la rottura delle ipocrisie del regime, l’infrazione delle regole asfittiche di una società che si avviava verso la morte civile, una società in cui i gay erano perseguitati, torturati e incarcerati. Saranno più di cinquemila, la fonte è lo stesso scrittore, i partner sessuali in quegli anni di fuoco. E saranno esperienze senza tabù né moralismi. In Prima che sia notte, l’autobiografia edita in Italia da Guanda, Arenas parla delle proprie esperienze con dovizia di particolari, ma lo fa senza morbosità, senza risultare pruriginoso né volgare.

Ma gli anni all’Avana, tra miseria e romanzi scritti di nascosto, sono anche gli anni di un rigoglio culturale senza precedenti, grazie alla creazione di un vero e proprio circolo culturale di altissimo valore: José Lezama Lima, Virgilio Piñera, lo stesso Arenas, sfidavano il regime con la sola arma della scrittura, sognando un futuro libero per Cuba, ma senza illudersi troppo. E Arenas, romanziere onirico e amante dell’assurdo, dimostrerà durante tutta la sua esistenza un realismo politico sorprendente, accompagnato da una lungimiranza che a volte appare profetica. Le esperienze del carcere, e poi dei campi di lavoro forzato, segneranno la definitiva disillusione, il distacco finale dello scrittore dalla sua amata isola. Arenas resterà fino alla morte cubano, amante della propria terra, nonostante le brutture, le dittature, i difetti tipici di quel popolo fiero e sfortunato. Nel carcere del Morro, vera e propria fortezza coloniale a strapiombo sul mare, Arenas vedrà quant’è facile morire a Cuba, scoprirà la vera miseria, non solo materiale (quella la conosceva bene) ma morale. Vedrà centinaia di anime spegnersi sotto i colpi del regime, assisterà a torture indicibili, lavaggi del cervello, abiure forzate e pentimenti dei cosiddetti “controrivoluzionari” o “antisociali”.

Nonostante le esperienze drammatiche, però, Arenas non dimenticherà mai di godere dei piccoli piaceri della vita. Un tramonto viola, le onde che si infrangono con violenza sul malécon (il frangiflutti tipico del lungomare dell’Avana), gli odori e i colori di una città in rovina. Ma la resistenza dello scrittore può poco nei confronti di un sistema ormai scientificamente organizzato per annientare le coscienze. L’unica salvezza è la fuga. E Arenas, come migliaia di persone prima e dopo di lui, tenta la via del mare a bordo di una camera d’aria, oppure si avventura in un fiume infestato di caimani per raggiungere la base americana di Guantanamo. Il caso, alla fine, gli permetterà di fuggire. Legalmente. Dopo l’assalto all’ambasciata peruviana, Castro è costretto a far partire migliaia di persone. Quasi tutti “antisociali”, quindi malati di mente, omosessuali, criminali comuni. E Arenas è l’antisociale per antonomasia nella Cuba castrista. Dal Mariel, il porto dell’Avana, lascia per sempre l’isola per approdare in Florida, ormai una vera e propria terra promessa per migliaia di cubani.

Inizia in America l’ultima parte della vita di Arenas, quella segnata dall’Aids, dal disagio derivante dal suo status di apolide, dalla difficoltà di ambientarsi in una società come quella americana, così diversa da quella cubana. Arenas sarà critico anche nei confronti del capitalismo, pur riconoscendo, in una frase divenuta celebre, che “la differenza fra il sistema comunista e quello capitalista, è che se ti danno un calcio in culo, sotto un sistema comunista devi applaudire, sotto il capitalismo puoi gridare; io sono venuto qui a gridare”. I suoi romanzi, alcuni dei quali fatti uscire illegalmente da Cuba e pubblicati negli anni precedenti in Francia, raggiungono una fama mondiale. Opere come Otra vez el mar, Celestino antes del alba, El mundo alucinante, El palacio de las blanquísimas mofetas, resteranno per sempre nella storia della letteratura cubana. Intanto, però, l’Aids avanza, e lo scrittore, esempio di vitalità fisica e sessuale, non riesce a rassegnarsi alla sua condizione. Decide, quindi, di anticipare i tempi. Conclude la sua autobiografia e si toglie la vita. E’ il 1990. Nel biglietto di addio per gli amici, però, urla con forza, ancora una volta, la propria rabbia contro il regime di Castro. Anche nel momento della morte il suo ultimo pensiero è per Cuba. “Non vi arrendete – scrive nella sua ultima lettera – ma continuate a lottare. Cuba sarà libera, io lo sono già”.


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