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Giustizia, il percorso a ostacoli di una riforma giusta
di ENRICO GAGLIARDI

[27 giu 08] L’articolo del Financial Times che nei giorni scorsi si è schierato a favore della decisione del governo Berlusconi di sospendere alcuni processi per favorirne altri non è stato molto pubblicizzato dalla sinistra. I commentatori dell’opposizione, in altri termini, non hanno agito come di consueto, come in passato, quando sbandieravano alla stregua di feticci gli editoriali di fuoco dell’ex direttore dell’Economist contro il presidente del Consiglio. Questa volta, invece, quando il prestigioso quotidiano economico inglese ha segnalato che i giudici nel nostro Paese hanno un potere inimmaginabile in qualsiasi altra democrazia occidentale, nessuno ha sentito l’esigenza di riportare la cosa. La notizia, a dirla tutta, è di quelle che fanno inevitabilmente il giro degli ambienti che contano soprattutto perché di fatto viene da una nazione che in termini di garantismo, giusto processo e divisione dei poteri può darci ripetizioni per innumerevoli anni. Anche l’Europa, dunque, si è accorta che in Italia esiste un nodo, quello del rapporto politica-magistratura, che probabilmente insieme ai temi economici rappresenta la patologia principale del nostro sistema. Dispiace che a capirlo non sia stato evidentemente ancora Walter Veltroni se è vero, come pare, che ha chiuso la porta in faccia alla maggioranza rispetto a qualsiasi dialogo di riforma sul tema giustizia. Delle posizioni di Antonio Di Pietro è superfluo parlare: non meravigliano affatto e rappresentano, se possibile, una conferma ulteriore del rigurgito giustizialista imperante ancora in larga parte d’Italia.

Quando il Cavaliere denuncia il rischio (legato all’azione di alcune procure) di un sovvertimento del voto popolare che di fatto lo ha legittimato alla guida del governo, non esagera, o almeno dimostra di avere presente una questione alla quale non si può più derogare. Quello che, forse, si potrebbe discutere sono i modi e gli strumenti utilizzati: l’emendamento che sospende alcune azioni giudiziarie legate a determinati limiti di pena, allo scopo di dare la precedenza ad altre, non fa altro che formalizzare una situazione già vigente nel nostro Paese e cioè una giustizia di classe che, intasata com’è, consente a chi ha i mezzi economici e tecnici di difendersi dal (e non nel) processo, beneficiando della lentezza dei meccanismi, dei termini di prescrizione. Dunque nessuno scandalo se si puntano i fari su una giustizia in necrosi che non funziona e non assolve ai suoi reali compiti. Il provvedimento in questione però rischia di fatto di creare più danni che benefici: in un contesto del genere sarebbe stato meglio e senza dubbio più redditizio un provvedimento generale di amnistia che, accompagnato a quello precedente di indulto, avrebbe sgravato di molto lavoro le procure italiane sepolte da fascicoli e casi totalmente inutili dal punto di vista dell’azione penale perché destinati già in partenza a prescrizione certa.

Oltre ai problemi di costituzionalità che senza dubbio verranno sollevati in qualche parte d’Italia, resta il capitolo legato alle proteste del Csm e più in generale di certa magistratura organizzata: qualcuno colpevolmente nelle procure dimentica il sacrosanto principio della divisione dei poteri per cui, se sono comunque lecite critiche nei confronti dell’operato del governo, queste devono inevitabilmente fermarsi all’ambito della discussione, trovando nella sacralità e nell’indipendenza del Parlamento il loro limite invalicabile. Da tale punto di vista deve però essere l’esecutivo a non farsi influenzare proseguendo nel cammino tracciato, magari iniziando quella riforma che deve necessariamente coinvolgere molti altri ambiti applicativi. Importante sarà anche il ruolo del leader del Partito democratico. A lui il compito, se ne sarà capace, di cogliere prontamente l’occasione non solo per ristabilire il filo del dialogo, ma soprattutto per liberarsi definitivamente della zavorra dell’Italia dei Valori e del suo vertice, ancora troppo legati ad un passato fatto di una visione dura, rigida e poco garantista del processo penale. A lui, in sostanza, la scelta tra il ricatto politico di Di Pietro (che ha già minacciato di rompere l’alleanza qualora l’ex sindaco di Roma non dovesse fare opposizione dura e pura) e la possibilità di dare una svolta decisiva al nostro “sistema diritto”.


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