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Dalla fine del socialismo può nascere un’Italia nuova
di GIAMPIERO RICCI

[10 giu 08] Il risultato delle scorse elezioni politiche è stato da più parti definito storico. Chi ne ha rintracciato i tratti rivoluzionari nella semplificazione del quadro politico, chi nella la fiducia riposta nei candidati premier o nel partito oggi di maggioranza relativa, chi nel consolidamento di una opposizione responsabile e non più anti-moderna. Ma un dato più di ogni altro avrebbe dovuto salire all’attenzione degli analisti politici: con il voto dello scorso 14 aprile non viene tanto sancita la cancellazione di tutti i pensieri politici novecenteschi dal quadro politico, quanto tutto ciò che più o meno direttamente possa essere riferito al pensiero socialista. E’ una rivoluzione copernicana per il nostro Paese.                              

Dacché irruppe nei primi del Novecento sullo scenario politico, il socialismo portò con se il concetto di “estreme”, ossia di forze politiche anti-sistema, foriere di conflitti sociali. Non digeribili. Insieme al cattolicesimo che superava la fase post-risorgimentale del “non expedit”, tutte le evoluzioni del pensiero socialista che si sono susseguite negli anni, compresa la coniugazione comunista, da tale connotato anti-sistema sono rimaste caratterizzate. E sebbene ancora oggi il principale appeal che viene riconosciuto al socialismo sia quello della presunta “tutela dei deboli”, cui esso dovrebbe essere preposto, con la riforma maggioritaria e la necessaria presa di responsabilità davanti all’opinione pubblica dei governi che si sono succeduti, è diventato chiaro, limpido, senza tema di smentite, dato acquisito in modo trasversale dalla società italiana, quale sia la natura delle azioni politiche connaturate a tali forze: il famigerato e rifiutato tax-and-spending a favore di una burocrazia lontana dalle necessità oggettive del Paese. Il principio politico del pensiero unico, di cui molti hanno pianto la dipartita dall’emiciclo parlamentare, è stato capace in un secolo di destabilizzare una fragile monarchia costituzionale che tentava di liberalizzarsi provocando il passaggio drammatico a favore del dispotismo violento. Come insegna la lezione di De Felice, all’indomani della Grande Guerra, giacché il proletariato che avrebbe dovuto unirsi aveva finito per spararsi da trincea a trincea, il fascismo colse l’opportunità di proporsi come reazione alle violenze anarco-socialiste scoppiate in larga parte dell’Italia centrosettentrionale a cavallo del conflitto, per affermare il suo credo ovvero la superiorità dei diritti dello Stato, della massa, sopra quelli dell’individuo, quindi la creazione in Italia del socialismo, diverso, su base nazionalista, a favore dei diritti di proprietà, ma pur sempre socialismo.

Attraverso esso si doveva poi giungere alla derivazione mefistofelica del nazismo datosi, come insegna Ayn Rand in un saggio del 1963, che “quando gli uomini hanno iniziato ancora una volta ad essere indottrinati con l’idea che l’individuo non possiede alcun diritto, che la supremazia, l’autorità morale e il potere illimitato appartengono al gruppo e che un uomo non ha alcuna importanza al di fuori del proprio gruppo, l’inevitabile conseguenza è stata che gli uomini hanno iniziato a gravitare verso un gruppo, per autodifesa, per smarrimento o per un terrore subconscio. Il più semplice collettivo al quale unirsi, quello con cui è più facile identificarsi, la forma di “appartenenza” e di “comunione” meno esigente è la “razza”. Poi i settanta anni di comunismo sovietico, mentre in Italia si affermava il più grande partito comunista del mondo democraticamente eletto che, dismessi nel palazzo gli abiti rivoluzionari, si “accontentava” di minare il nascere di un sistema capitalista, ricattando nelle piazze una Democrazia Cristiana orfana del coraggio dei padri costituzionali e costretta a cedere sul welfare, sull’università, sul pubblico impiego, sulla presenza dello Stato nell’economia del Paese. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, tanto che, con il risultato elettorale, sono stati messi da una parte (quella risultata sconfitta) tutti gli eredi dell’arco costituzionale che ha governato l’Italia negli ultimi quarantuno anni e dall’altra (quella dei vincenti) il resto del Paese, l’Italia profonda, quella pancia dello Stivale che sembra quasi rievocare suggestioni risorgimentali, allorché una maggioranza liberale, repubblicana e nazionalista portò avanti il processo unitario tra le amnesie dei militanti cattolici e marxisti.

Se il risultato uscito dalle urne sarà adeguatamente consolidato dal Parlamento e dalle forze politiche, in primis da un Partito democratico che avrà la responsabilità di ricucire nei prossimi anni il rapporto con la parte più avanzata del Paese e di operare quella pulizia intellettuale da scorie socialcomuniste che gli si richiede, se lo stesso avverrà all’interno della compagine liberal-conservatrice cui spetterà il compito di trasformare le pulsioni della destra sociale, ancora in parte presenti all’interno del Pdl, in un conservatorismo compassionevole possibile, vorrà dire che in Italia, uno dei Paesi più influenti d’Europa, sarà davvero scomparsa quella storia, rendendo il sistema politico italiano, per lo meno sotto il profilo dei contenuti, più simile a quello degli Stati Uniti che non a quello dell’Unione Europea che oggi conosciamo. Allora si sarà davvero compiuta una evoluzione storica e l’Italia sarà pronta per affrontare senza timori la sfide della globalizzazione.


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