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Birmania, la resistenza di Taunggok
di ENZO REALE

[28 feb 08] Come nella Gallia di Asterix assediata dai Romani, anche la Birmania avvilita dai generali ha il suo villaggio che non si rassegna. A Taunggok (nello Stato di Arakan, Rakhine secondo la nuova denominazione, parte centro-occidentale del Paese), a cinque mesi dalle manifestazioni nazionali represse nel sangue, la resistenza al regime continua seppur in forma semiclandestina ed isolata. Già nel settembre caldo questa località, nota per il suo attivismo politico, era stata teatro di una delle marce più imponenti al di fuori dell’ex capitale Rangoon: quarantamila civili, accompagnati da centinaia di monaci e novizie avevano sfilato chiedendo condizioni di vita più umane. Poi il silenzio imposto dalla violenza di Stato aveva avvolto anche le sue strade. A metà gennaio, però, una nuova concentrazione popolare davanti al mercato locale (settanta le persone coinvolte) ha costretto le autorità a bloccare le strade e a chiudere le scuole per evitare che altri partecipanti – soprattutto contadini - si unissero al corteo. Nei giorni successivi il consueto paesaggio fatto di squadre anti-sommossa a presidiare i punti nevralgici della cittadina insieme ad un numero crescente di agenti in borghese, in un clima di intimidazione già noto agli abitanti di Taunggok: molti membri della Lega nazionale per la democrazia (il partito di Aung San Suu Kyi) sono da mesi detenuti nelle prigioni locali. Ma come in un gioco di squadra preparato a tavolino, i gregari emergono quando i leader si trovano in difficoltà.

Così Than Htay e Ko Zaw Naing una mattina sono saliti sulla loro bicicletta con le gomme sgonfie e hanno percorso il centro cittadino cantando slogan di protesta e rivendicando la liberazione dei prigionieri politici. Anche loro sono stati arrestati quasi subito. Qualche giorno dopo altri eroi senza nome hanno eluso la sorveglianza per tappezzare di poster anti-regime l’ospedale e la piazza del mercato: i manifesti sono stati rimossi in fretta ma intanto il messaggio era passato. Qualcuno l’ha già definito, esagerando un po’, “l’effetto storno”: come certi volatili quando sono sotto l’attacco dei predatori compiono repentini cambi di direzione senza mai dividersi, così gli abitanti di Taunggok hanno imparato a muoversi insieme contro i rapaci al servizio della giunta militare. “Non è facile affiggere un poster nel centro della città, infestato da pattuglie di uomini armati, senza un gruppo di supporto e di controllo che lavori con te”, osserva un sito della dissidenza in esilio. “A Taunggok hanno imparato che l’unione fa la forza, che è necessario agire come una comunità”, osserva l’articolo in chiaro riferimento alla mancanza di strategia e di coesione che ha sempre caratterizzato l'opposizione alla dittatura e la popolazione birmana in generale: “Per quanto potente sia l’esercito, ci sono pur sempre cinquanta birmani per ogni soldato o canaglia del regime”, conclude l’autore.

Ma la lezione di Taunggok rischia di rimanere aneddotica. In una realtà come quella della Birmania dei generali un soldato armato avrà sempre la meglio su cinquanta poveri cristi a mani nude. Le possibilità di un’insurrezione nazionale sono oggi ridotte al minimo dopo la tragedia di settembre. Dall’estero si specula sulla capacità di riorganizzazione dei monaci e su nuove ondate di protesta che potrebbero riesplodere da un momento all’altro ma in genere si tratta di analisi ingenue se non ipocrite: è decisamente facile lasciare sulle spalle di una casta di religiosi e di una popolazione condannata alla miseria materiale e morale l’intera responsabilità del riscatto di una nazione. La rivolta nonviolenta che ha emozionato per qualche giorno la comunità internazionale, ha soprattutto dimostrato che senza un concreto aiuto esterno ogni speranza di cambiamento è destinata a morire dissanguata sul filo spinato dei campi di detenzione che il regime sta continuando a riempire non solo di attivisti (ormai ne sono rimasti pochi in giro) ma anche dei loro familiari e di semplici cittadini in lotta per la sopravvivenza.

Mentre Gambari e Fassino sono impegnati a rassicurare tutti sulla bontà del loro mediazione diplomatica, passando da una conferenza stampa ad un ricevimento, la lista dei desaparecidos si allunga ogni giorno: poeti arrestati per un messaggio cifrato contro Than Shwe, blogger prelevati dai cybercafé, monaci che mancano all’appello, dissidenti costretti a cambiare rifugio ogni giorno. La generazione dell’88 – gli studenti che già vent’anni fa sfidarono i militari – languisce nelle patrie galere; la Nld, dopo anni di persecuzioni e con Aung San Suu Kyi costretta agli arresti domiciliari, ha perso ogni capacità organizzativa e ogni spinta propulsiva; i legittimi rappresentanti del popolo birmano – quelli eletti nel 1990 e mai entrati in carica – sono fuggiti o si trovano costantemente sotto sorveglianza e minaccia; il numero di prigionieri politici, denunciano le associazioni umanitarie, è cresciuto di settecento unità nel 2007, senza contare i detenuti della “rivoluzione di zafferano”. Se un giorno la Birmania otterrà la libertà, la resistenza di Taunggok sarà probabilmente ricordata come un passaggio significativo nel cammino verso l’affrancamento. Ma oggi la ragione consiglia di raccontare questa piccola storia per quello che è, un grido di dignità nell'eterna notte birmana destinato a spegnersi prima dell’alba.



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