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La politica economica del Pd non convince
di
Giuseppe Pennisi

[21 feb 08] Se si dovesse giudicare sulla base delle dichiarazioni del suo leader, Walter Veltroni, la politica economica del Partito Democratico non meriterebbe neanche il tradizionale “18 e sigaro toscano (che non si negano a nessuno)”, secondo la cinica tradizione di molte università italiane. Veltroni è inciampato in primo luogo sullo stato dei conti pubblici lasciati in eredità dal governo Prodi. Ha ammiccato alle stime di sindacati ed altri a proposito di un eventuale “tesoretto” di ben 10 miliardi di euro. Lo ha frenato lo stesso ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, che ha suggerito di attendere i dati della trimestrale di cassa che verranno diramati a metà marzo. Anche nell’eventualità che nei primi mesi del 2008 il gettito effettivo aumenti più delle previsioni, non ci sarebbe – per dirla alla romana – trippa per gatti. Le stime non sono rosee: la sera del 14 febbraio il “consensus” dei 20 istituti econometrici privati internazionali ha annunciato un ulteriore rallentamento dell’economia italiana nel 2008 rispetto alle elaborazioni di due mesi fa. In media, si sfiora un aumento del Pil dell’1 per cento ma 9 istituti ne prevedono uno attorno allo 0,5 per cento. La Finanziaria è stata costruita ipotizzando incrementi del Pil tra l’1,5 e l’1,7 per cento. L’effetto congiunto di esaurimento degli effetti dei condoni e dei concordati e di rallentamento rende più realistico parlare di “buco annunciato”. Le mie stime lo pongono tra gli 8 ed i 12 miliardi, l’equivalente di una legge finanziaria degli anni Novanta. Con un margine d’errore del 50 per cento, restiamo nell’ordine di almeno 4-6 miliardi, una cifra che non si può raggranellare con qualche ritardo alle erogazioni per i pagamenti, facendoli slittare dall’esercizio 2008 a quello 2009. Chi sarà in carica in maggio-giugno dovrà spalmarla su sei mesi all’assestamento di bilancio: difficile tagliare spese per un’entità (almeno) tra i 2 miliardi ed i 600 milioni al mese.

Ove ciò non bastasse, Veltroni ha promesso riduzioni del carico fiscale ma non della spesa pubblica, che dal 2000 al 2006 (ultimo anno per il quale si dispone di un consuntivo) è passata dal 46,2 al 50,5 per cento del Pil. Stime preliminari Ocse-Fmi la portano al 51 per cento del Pil nel 2007. Non ha, infine, preso posizione sulle richieste dei sindacati del pubblico impiego che chiedono a gran voce aumenti salariali tali da aggravare la spesa pubblica di circa 7 miliardi già nel 2008. Il silenzio in materia di spesa è davvero assordante. In questi giorni, la Banca Mondiale pubblicava (e metteva online) un’analisi comparata del nesso tra spesa pubblica e crescita basata su un lavoro econometrico in cui si esamina l’esperienza di 140 Paesi (118 in via di sviluppo e 21 appartenenti all’Ocse) in un lasso di tempo (1972-2005) sufficientemente lungo da essere significativo. La crescita (definita in quanto aumento del pil pro-capite del 2 per cento l’anno per almeno un lustro) si verifica quando per almeno cinque anni di seguito la spesa primaria (ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito) non cresce più dell’1 per cento l’anno e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non supera mai il tetto del 2 per cento del Pil. Perché si verifichino queste due condizioni, occorre un’effettiva cura dimagrante della macchina pubblica italiana con i suoi annessi e connessi: non basta promettere che non verrà ulteriormente aumentata la pressione fiscale. Il Popolo della Libertà ha fornito indicazioni specifiche: abrogazione della contro-riforma della previdenza varata dal governo Prodi alla fine del 2007; terapia d’urto per colmare il “buco annunciato”; introduzione di meritocrazia negli apparati pubblici (ministeri e regioni in primo luogo).

Quanto meno contraddittorie, poi, le proposte di Veltroni sulla legiferazione di minimi salariali. Uno dei maggiori studiosi svedesi, Assar Lindbeck, da sempre considerato contiguo alla sinistra, ha ricevuto il premio Nobel per l’economia proprio perché ha dimostrato come il minimum wage danneggi individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra) ha mostrato in un libro, giudicato una pietra miliare in materia, le implicazioni macro-economiche negative (per le politiche di crescita) di un salario minimo. Soprattutto, gli studi comparati dell’Ocse e dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro, all’interno della quale sono rappresentati i sindacati) documentano che nei Paesi in cui esiste il minimum wage la contrattazione collettiva nazionale non riguarda minimi salariali (punto centrale del sindacalismo dell’Europa continentale, e fiore all’occhiello, ad esempio, della IG Metall). La fine della contrattazione collettiva è stata chiesta da tempo dall’economista PdL Renato Brunetta. La proposta di Veltroni, quindi, se portata avanti, ridurrebbe il ruolo dei suoi grandi elettori principali, i sindacati.



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