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La battaglia contraddittoria del Ferrara bifronte
di
Paola Liberace

[19 feb 08] Nella macchina elettorale mediatica che si è appena avviata, Giuliano Ferrara è un ingranaggio a sé stante. Proprio mentre tutti gli altri candidati premier cominciano il loro tour de force sugli schermi televisivi, Ferrara esce dal video – almeno nelle vesti di conduttore e anchorman – accettando di rientrarvi occasionalmente, secondo i vincoli pre-elettorali, come promotore della lista “Aborto? No, grazie”. Mentre tutti i leader dei partiti in lizza si dispongono a discutere di fronte alle telecamere in una dialettica serrata, ma caratterizzata da toni insolitamente civili, l’Elefantino rifiuta il confronto diretto, limitandosi a prodursi in una sorta di monologo. Quando il suo interlocutore intende affrontare specificamente l’argomento della sua battaglia, Ferrara si sottrae; quando la sua presenza è più periferica rispetto agli invitati in trasmissione, ribatte alle poche obiezioni con argomenti crudi e definitivi; mentre intorno a lui si crea un vuoto che si richiude appena volta le spalle, quando tutti già parlano d’altro. L’impressione che si riceve dalle prime comparse televisive di Ferrara, insomma, è emblematica della sua reale posizione nell’agone politico: sostanzialmente isolata, specialmente dopo i cauti distinguo di Veltroni e il “no” di Berlusconi all’apparentamento.

 

Le ragioni opposte a Ferrara dal Cavaliere, che ha escluso i temi bioetici dalla sua campagna elettorale, sembrano in realtà confermate dalle affermazioni dello stesso direttore del Foglio, che a Gad Lerner ha spiegato di non mirare a una battaglia politica, ma morale. Una strana contraddizione, per chi – piuttosto che accontentarsi di influenzare l’opinione pubblica dalle colonne del suo giornale- si è appena candidato con una propria lista. Strana, ma non unica: tutto il discorso di Ferrara è invece costellato di negazioni, più o meno freudiane, o di  affermazioni che si elidono reciprocamente. L’intento della moratoria sull’aborto, dice l’Elefantino, non è colpevolizzare le donne, non è tornare alla punibilità del reato – pure riconosciuto come tale -, non è criminalizzare i compagni presenti o assenti delle mancate madri. Soprattutto, non si intende mettere in discussione la legge 194: semmai, chiederne l’integrale applicazione. Eppure, parlando a “L’Infedele” dell’aborto denunciato nell’ospedale di Napoli, Ferrara non ha discusso se fosse accettabile la denuncia e il successivo intervento della polizia, ma ha stigmatizzato il comportamento del padre del bambino, assente. Soprattutto, tornando alle ragioni del non nato, non ha affrontato l’unico, vero dato di fatto che – anche dopo i successivi chiarimenti sull’episodio – resta incontrovertibile: in ultima analisi, la stessa legge assegna oggi la decisione alla donna gravida. E’ questo, allora, il vero punto che semmai sarebbe da rimettere in discussione, come tuttavia il direttore del Foglio afferma di non voler fare.

Questo Ferrara bifronte, che vuole e disvuole, che sparisce come giornalista e ricompare come politico, è contraddittorio nei metodi quanto nel risultato, perché ha già vinto e perso contemporaneamente. Ha vinto, perché la sua proposta di moratoria ha scosso profondamente le coscienze e le prassi mediche e sociali. Ha vinto perché ha spinto autorevoli medici e professori a precisare che, dal momento dell’espulsione dal corpo femminile, il feto ha diritto a tutte le cure possibili – ciò che sarebbe follia negare, dal momento che dopo la nascita (dopo, e non prima) la legge riconosce il bambino come soggetto a sé stante (e quindi sottratto alla decisione di vita o di morte dei genitori). Ha vinto perché, fosse anche una sola la madre che ci ha ripensato dopo aver letto le sue parole, è già qualcosa sulla strada del cambiamento culturale. Ha vinto perché ha risvegliato l’opinione pubblica sul mostruoso fenomeno degli aborti selettivi in Cina (salvo poi presentare lo strumento abortivo a fini eugenetici come un frutto essenzialmente della mentalità occidentale).

 

Ma ha anche perso, perché – se è vero che il suo intento non è tornare alla clandestinità – ha concorso, volente o nolente, a creare un clima guardingo e difensivo, che lungi dal dissuadere dalla pratica di ulteriori aborti, riscia di incoraggiarli. Un fallimento, questo, non solo sul piano del diritto della vita nascente: ma anche della vita già nata, quella della madre che vede messa in discussione la legittimità della sua decisione. Ha perso, perché l’efficacia della sua sfida lanciata sul terreno morale e sociale è pari solo all’inefficacia della stessa sfida lanciata nel campo politico; nel quale gli interlocutori da lui individuati si girano dall’altra parte. Ha perso, perché appaltare alla politica un mutamento nel sentire, sia pure opportuno e urgente, significa avere un’idea invasiva, intollerabile del ruolo della politica stessa, che a un liberale non può che ripugnare. Ha perso, perché quando il mistero aspro e silenzioso della vita viene trascinato all’esterno, sbattuto in prima pagina o di fronte alle telecamere, che sia per protestare arroganti slogan sul “diritto” all’aborto o per proclamare monolitiche “moratorie” in sua difesa, è già diventato altro: nell’uno e nell’altro caso continuerà imperterrito a sfuggirci.



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