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Ricordo di Angelo D'Arrigo, in volo libero sull'Everest
di TIZIANA LANZA

[18 apr 08] “Ad un certo punto, dalla piccola porta sbattuta dal vento entrò un gruppo di turisti cinesi, vestiti all’ultima moda alpinistica. Parlavano ad alta voce, come se fossero i padroni di casa… Un attimo dopo i monaci si alzarono e uscirono anche loro, senza una parola… I nuovi arrivati, indifferenti continuarono a chiacchierare rumorosamente. L’intrusione mi infastidì moltissimo. C’erano nel loro atteggiamento un’invadenza e un senso di possesso molto sgradevoli. Pochi minuti dopo sparii anch’io”. Era il 2003 e Angelo D’Arrigo si trovava in Tibet per preparare minuziosamente quella straordinaria avventura che lo avrebbe portato, nel maggio del 2004, a volare con il suo deltaplano sull’Everest. Un’impresa, come le altre da lui portate a termine, destinata a rimanere nella storia. Angelo D’Arrigo ora non c’è più, e vengono i brividi a leggere dalle sue stesse parole quei mesi trascorsi in un mondo così diverso dal nostro. Scriveva già nel suo libro, In volo sopra il mondo, delle Olimpiadi che nel 2008 la Cina avrebbe ospitato. Così come scrisse del suo ritiro con i monaci tibetani. Era affascinato dalle loro leggende. Sentirle raccontare dai monaci stessi era stata per lui una vera emozione, soprattutto quella sul volo dei lama tibetani, secondo la quale in alcuni monasteri l’aspirante lama veniva sottoposto ad una prova di volo. Appeso sotto un grande aquilone che veniva sollevato fino a 100 metri da terra, il candidato rimaneva sospeso e soltanto il vento, quando calava, lo riportava giù, a volte un po’ troppo bruscamente.

Certo, quella leggenda assomiglia molto alle sue imprese di volo libero e al suo modo di interpretare lo sport estremo. Impossibile dunque per lui non rimanere affascinato da quel popolo di cui scriveva come fosse “animato da una sincera bontà, ma anche pieno di dignità e orgoglio. Nonostante la situazione politica”. E come non ricordare Angelo, che ci lasciava due anni fa, il 26 marzo del 2006, a causa di un incidente aereo a Comiso, con maggiore nostalgia in questi giorni, lui che, grazie alla sua caparbietà, riuscì lo stesso a volare sopra il tetto del mondo, nonostante il divieto imposto dalla autorità cinesi? “L'uomo è un’eccellente fabbrica di ostacoli, beati gli uccelli che passano dove e quando vogliono”, scriveva. Non potendo volare dalla Cina verso il Tibet, scelse l’alternativa nepalese e cioè, invece di volare da nord a sud, decise di volare in senso opposto, seguendo la rotta migratoria di ritorno degli uccelli. Quell’impresa era agli occhi di tutti molto rischiosa. Si trattava di volare a una quota di quasi 9 mila metri, dove la carenza di ossigeno mette a repentaglio l’incolumità fisica. Chi si è cimentato nella scalata dell’Everest, conosce bene lo sforzo a cui viene sottoposto il fisico. Sono imprese estreme alle quali bisogna prepararsi con grande cura.

Ma Angelo era abituato. Negli anni precedenti, altre imprese grandiose lo avevano preparato a quell’evento. E per lui che aveva messo lo sport al servizio della scienza, il vero scopo non era quello di superare i record che in passato avevano raggiunto altri professionisti prima di lui. Semmai le sue sfide erano semplicemente un volere aggiungere qualcosa di nuovo, sentendosi in perfetta armonia con la natura. Per questo aveva deciso di volare con un’aquila, Nike, cresciuta in cattività. A lei, seguendo gli studi di Konrad Lorenz, padre dell’etologia moderna, aveva insegnato a volare alle pendici dell’Etna, dove, catanese di origini, era ritornato ad abitare dopo avere vissuto con sua madre in Francia, a Parigi. In seguito aveva volato con Nike per insegnarle la rotta migratoria, seguendo i falchi che ogni anno compiono il tragitto lungo il Sahara e poi sul mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa settentrionale. Era la prima tappa di un progetto che lui aveva chiamato “Metamorfosi”, proprio perché volare con i rapaci per lui voleva dire recuperare quel volo istintivo che ognuno di noi ha dentro di se. E così aveva aggiunto una prospettiva nuova a quella dell’altro suo grande maestro, Leonardo da Vinci.

Dell’esperienza di Leonardo sul volo scriveva: “Partendo dalla sua analisi, nata dallo sguardo di un uomo del Rinascimento, con il bagaglio tecnico e tecnologico di allora, grazie ai mezzi oggi disponibili, potei cambiare il punto di vista, entrando dentro l’elemento. Vivendo per aria, a differenza di Leonardo, cominciai a osservare gli uccelli non più da spettatore esterno, ma da protagonista delle traiettorie sulle tre dimensioni”. Oggi il Museo Leonardo Da Vinci di Milano lo ricorda anche per quella sua straordinaria intuizione di realizzare e far volare una piuma leggerissima identica nella struttura a quella di Leonardo.

Nel 2002, un gruppo di scienziati del Russian Research Institute for Nature and Protection di Mosca, lo invitò a collaborare per il reinserimento in natura di alcuni esemplari di gru siberiane, una razza in estinzione. Un’esperienza nuova nel corso della quale aveva dovuto anche conquistare la fiducia di popolazioni che vivono nel cuore della Siberia, come i Nenet, per i quali le gru sono sacre, tanto da chiamarle gli “uccelli del paradiso”. Angelo aveva compreso che l’estinzione delle gru aveva lasciato un vuoto doloroso nel sistema mitologico e religioso della popolazione. E, del resto, ripeteva sempre che non esiste avventura degna di essere vissuta che non sia prima di tutto scambio tra culture, reciproca conoscenza, arricchimento interiore.

Per questo ci piace ricordarlo in questo momento di tensioni internazionali, lui che prima di essere un grande atleta e un convinto naturalista, era una persona straordinaria che nutriva profondi sentimenti umanitari. Oggi, sua moglie, Laura Mancuso, insieme ai figli e a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di condividere le sue imprese straordinarie, attraverso la Fondazione D’Arrigo porta avanti l’operato di Angelo con progetti legati all’ecologia e alla solidarietà. A noi piace immaginarlo ancora e sempre in volo sopra il mondo, sul suo fedele compagno, il deltaplano, intento a realizzare il suo semplice e allo stesso tempo grandioso sogno: “Molti mi chiedono che cosa mi spinga ad andare sempre oltre. Non è agonismo: con le sfide ho smesso da anni. Non è nemmeno il bisogno di misurarmi con i miei limiti, come a volte ho creduto. No, è qualcosa di più semplice e intimo: l'istinto di esistere nella natura a modo mio. Un istinto che mi tiene sveglio la notte, che mi illumina e mi entusiasma. Non seguirlo sarebbe tradire me stesso. Se riesco a sentirmi pienamente vivo soltanto immerso in spazi sconfinati, libero nell'aria sopra deserti o ghiacciai, vulcani o pianure, fiumi, mari, montagne, non è per qualcosa che cerco, ma per quello che sono. La mia vita, in fondo, è questo: un grande volo per tornare alle origini, a uno sguardo di gabbiano sulle falesie della Normandia”.


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