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Democratici ai ferri corti. McCain prova a unire il Gop
di ALESSANDRO MARRONE

[16 apr 08] In vista delle primarie in Pennsylvania del 22 aprile, continua sempre più serrata la lotta in casa democratica tra Barack Obama e Hillary Clinton, a tutto vantaggio del candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain che si sta concentrando maggiormente su economia e politica estera. La scorsa settimana il senatore di colore sembra essere incappato nella sua prima vera gaffe verbale, infrangendo il mito della infallibilità oratoria fin qui abilmente costruito. Riferendosi agli elettori dei piccoli centri della Pennsylvania, ha in pratica affermato che scaricano le frustrazioni dovute alla perdita di posti di lavoro abbracciando la fede religiosa, andando a caccia e con atteggiamenti chiusi verso l’immigrazione. Sebbene Obama nei giorni successivi abbia cercato di correggere il tiro, ammettendo che le sue parole erano state scelte male, è stato fortemente criticato sia dai repubblicani sia, soprattutto, dalla sua rivale democratica. Clinton ha ribadito con orgoglio di essere cresciuta in una famiglia che andava a messa, e ha affermato che “le persone abbracciano la fede non perché sono povere materialmente, ma perché sono ricche spiritualmente”. Nel tentativo di mostrarsi in sintonia con gli umori dell’America profonda, che considera il diritto di portare armi importante quasi quanto la libertà religiosa ed economica, la senatrice di New York ha poi ricordato con orgoglio che suo padre le ha insegnato ad usare il fucile quando era ancora una bambina.

Oltre alla questione dei valori, lo scontro tra Obama e Clinton vede al centro i temi economici e i voti della working class tradizionalmente vicina al Partito democratico. Se è vero che il leader del sindacato degli autotrasportatori James Hoffa, figlio del leggendario leader sindacale Jimmy Hoffa, fa attivamente campagna elettorale per il senatore dell’Illinois, è anche vero che Clinton sembra più in grado di rassicurare i lavoratori che hanno perduto o vedono a rischio il proprio posto di lavoro. Presso questo specifico segmento elettorale pesano infatti negativamente due caratteristiche di Obama che finora hanno fatto la fortuna della sua candidatura: la giovane età, sinonimo in qualche modo di inesperienza, ed il suo essere così amato dalle élite intellettuali della costa est e ovest, mai viste di buon occhio dal lavoratore medio americano. Non a caso la maggior parte dei sondaggi ha registrato nel mese di marzo un sensibile calo di popolarità a livello nazionale di Obama tra gli elettori democratici, specie tra gli uomini, e alcune ricerche demoscopiche danno a Obama solo 3-5 punti di vantaggio su Clinton, rispetto ai 10-12 di febbraio.

Tale trend sembra contribuire ad un prolungamento della contesa tra Clinton e Obama, poiché nessuno dei due contendenti sembra prossimo né a un crollo clamoroso né ad una vittoria schiacciante. Quanto alle rispettive forze nella convention democratica, secondo il conteggio del New York Times Obama può contare su poco più di 160 delegati di vantaggio rispetto a Clinton, e in Pennsylvania ne sono in palio 188. Nelle primarie democratiche l’assegnazione dei delegati è proporzionale al numero di voti ottenuti, quindi anche se la Clinton vincesse non otterrebbe tutti i delegati sufficienti per colmare il gap con il rivale. Tuttavia, una sua netta vittoria, oltre a ridurre il distacco di delegati, potrebbe anche influire sul voto degli oltre 400 superdelegati indicati dal partito, al momento ancora divisi più o meno in egual misura nella scelta tra i due candidati. Anche finanziariamente le forze grosso modo si equivalgono: Obama ha infatti raccolto finora 197 milioni di dollari e Clinton 174.

E’ interessante notare come il senatore di colore abbia spopolato sia nella raccolta online di piccoli contributi da parte dei militanti democratici, sia tra i miliardari di Wall Street, di Hollywood e della Silicon Valley. Per avere un’idea della macchina finanziaria messa in piedi dai democratici e dall’establishment economico loro vicino, basti pensare che McCain, nonostante sia di fatto già il candidato repubblicano alla Casa Bianca, ha raccolto finora solo 66 milioni di dollari. La lotta fratricida inizia però a preoccupare molto i leader del Partito democratico, in particolare il segretario del Comitato nazionale Howard Dean, per almeno due motivi. In primo luogo il proseguire dello scontro ritarda l’avvio della campagna contro McCain, che nel frattempo può rafforzare la propria immagine venendo ben poco attaccato dai due candidati democratici, troppo occupati a farsi la guerra a vicenda. In secondo luogo Clinton e Obama si sono attaccati non solo su specifiche questioni politiche, su cui è possibile poi raggiungere un compromesso, ma su debolezze e difetti personali che una volta sottolineati restano nel dibattito pubblico e nella mente degli elettori, che ad esempio vedono la capacità di leadership di uno dei due candidati messa in discussione dai suoi stessi colleghi di partito. Non stupisce quindi che Dean abbia chiesto ai super delegati di esprimere la loro preferenza il prima possibile, in ogni caso entro il primo luglio, e ai due contendenti di misurare i toni dello scontro. Ma di fatto i vertici democratici non possono fare granché per fermare la corsa delle due lanciatissime locomotive finanziarie e mediatiche costituite dall’ex first lady e dal senatore di colore.

Tutt’altra storia nel campo repubblicano. McCain continua con pazienza l’opera di persuasione dell’elettorato del suo stesso partito, non meno spaccato di quello democratico ma con l’indiscutibile vantaggio di aver visto gli altri aspiranti leader – Giuliani, Romney, Huckabee – ritirarsi ed appoggiare pubblicamente il vincitore delle primarie. Secondo un sondaggio recentemente rilanciato dal New York Times, McCain a febbraio era visto positivamente solo dal 57 per cento degli iscritti repubblicani, percentuale salita a marzo a un più confortevole ma ancora insufficiente 67. Anche a livello di élite, il senatore dell’Arizona sta cercando di riunire le due grandi famiglie che hanno dominato il pensiero repubblicano nel campo della politica estera negli ultimi 15 anni, i realisti e i neoconservatori. Definendosi un “idealista realistico”, nei suoi ultimi discorsi McCain cerca di coniugare la fede nei valori della libertà e della democrazia all’attenzione per le ragioni degli alleati e per i limiti della stessa potenza americana. Il punto è che McCain non ha ancora strutturato un vero e proprio team di consiglieri riguardo alla politica estera, ma consulta regolarmente sia esponenti realisti come Colin Powell e Henry Kissinger – il realista per antonomasia – sia neoconservatori quali Robert Kagan e l’ex ambasciatore all’Onu John Bolton. Di certo finora le sue posizioni in politica estera - ad esempio sull’Iraq con il pieno appoggio a Petraeus che vuole mantenere un forte impegno militare per stabilizzare il Paese senza indicare un calendario di ritiro delle truppe – non si discostano molto da quelle dell’amministrazione Bush. 

Ma è l’economia il tema su cui McCain si è speso maggiormente in pubblico nelle ultime settimane, consapevole che con la crisi dei mutui e gli spettri di recessione è un tema in cima alle preoccupazioni degli elettori. Il candidato repubblicano si è detto favorevole ad un programma di aiuti federali per le famiglie che devono ristrutturare il proprio mutuo, riservato però solo a coloro che ne fanno domanda per la prima casa e non risultano in grado di provvedervi autonomamente. Una posizione pragmatica a metà tra il laissez faire di stretta osservanza repubblicana e le promesse di ampi e costosi interventi federali del duo democratico. Ad essa McCain ha unito un forte appello ai valori e all’orgoglio americani, in risposta alle parole di Obama sui cittadini dei piccoli centri rimasti senza lavoro: il senatore repubblicano ha ricordato infatti che “anche dalla Grande Depressione è emersa dall’America una generazione di uomini che è partita per combattere il dispotismo nel mondo, ed è tornata a casa per costruire la nazione più benestante e forte del pianeta”.


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