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Alla ricerca della Britishness perduta
di
GIAMPIERO RICCI

[10 apr 08] Il bivio diplomatico rappresentato dall’adesione alla riforma costituzionale europea, che mette in gioco in un solo momento la special relationship con gli Stati Uniti e lo storico e profondo sentimento anti Bruxelles, è solo l’ultimo dei colli di bottiglia che lo Union Jack si trova a dover affrontare. Negli ultimi mesi la crescente influenza culturale musulmana nel Paese ha portato alle note esternazioni dell’arcivescovo di Canterbury: “Dobbiamo aprirci alla possibilità di introdurre tra le nostre leggi parti della Sharia”. Lo scorso anno, l’unica vera notizia delle elezioni amministrative non è stata tanto il raggiungimento della maggioranza relativa in Scozia da parte del partito indipendentista, quanto l’emergere di una reazione puramente inglese alle spinte dissolutive arginate con difficoltà dalla devolution: per la prima volta avanzava nella parte del Paese che ha sempre sostenuto i costi sociali dei programmi assistenziali (magari proprio in favore della Scozia) la richiesta di maggiore autonomia, la rivendicazione del principio di sussidiarietà anche a favore dell’Inghilterra, qualcuno paventando addirittura all’orizzonte la nascita di un Parlamento in terra inglese sul modello di quello scozzese, una dissolution nei fatti.

Il Regno di Sua Maestà, che con ogni probabilità i new Tories di David Cameron torneranno a governare al più tardi nel 2010 (nei sondaggi i Conservatori sono al 45 per cento, il miglior risultato dal 1980), sarà qualcosa di completamente diverso dal Paese di Major, uscito fresco fresco dall’era tatcheriana. Adesso che l’economia rallenta (le ultime proiezioni per il 2008 danno un riduzione della crescita dal 3,2 per cento del 2007 all’1,9) e si riaffaccia lo spettro dell’inflazione, diventa difficile per un governo di qualsiasi colore mantenere le promesse sul miglioramento dei servizi pubblici, in particolare nel sistema scolastico. Il rallentamento nel mercato immobiliare, la crisi finanziaria latente, il controverso salvataggio della banca Northern Rock grazie all’intervento governativo, il rapporto deficit-pil al 5,7 per cento, quello della bilancia commerciale che continua a crescere, segnano un marcato deterioramento del quadro socioeconomico. Il prezzo della crescita degli ultimi quattordici anni di governo laburista, anni che hanno visto trasformare un Paese che sembrava destinato ad un declino irreversibile in quello con il maggior reddito pro capite, superando anche Francia e Germania e raggiungendo il secondo più basso tasso di disoccupazione nella Ue, sembra essere stato quello della messa in discussione dei valori cardine alla base della Britishness, ovvero le ragioni di quella propria tradizione culturale da cui il Paese deve ripartire se non vuole ritrovarsi in pastoie che assomigliano molto da vicino ai guai vissuti dai Paesi dell’Europa continentale.

Un paradosso paradigmatico sull’evoluzione e le caratteristiche della crescita economica britannica degli ultimi anni è rappresentato dallo sviluppo dell’industria cinematografica. Una industria che secondo la società di consulenza Oxford Economics, impiega 33mila e 500 persone e contribuisce alla crescita economica del Regno Unito con 7,8 miliardi di dollari l’anno. Ebbene, ci si aspetterebbero produzioni come Quattro matrimoni e un funerale, o il più recente Love actually, ma tra le produzioni britanniche nominate quest’anno come miglior film britannico c’è, ad esempio, The Bourne Ultimatum. L’esempio non va però semplicemente derubricato a mera curiosità, giacché la legge inglese affida ingenti sussidi alle produzioni che il governo giudica “culturalmente British”. C’è da chiedersi: è questa la Britishness del terzo millennio? Sostegno incondizionato ad una industria della cultura che fatica a trovare in se stessa le ragioni della promozione della propria eredità.

Cosa vuol dire oggi Britishness? Per il ministro della Cultura del governo Brown, Andy Burnham, Britishness, come detto in un recente discorso presso l’Ippr (Institute for public policy research), è la Mini degli anni Sessanta di Aled Issigonis, nato in Turchia da genitori greci e tedeschi e arrivato in Inghilterra da rifugiato; ma Britishness è anche la nuova Mini prodotta da una azienda tedesca su design di un cittadino di Sua Maestà, oggi a capo del team design della Fiat. Britishness è anche il coreografo Akram Khan, che – a parere del ministro - miscela gli stili classici delle danze occidentali con le forme indiane in qualcosa di unicamente british, e ancora il sound di Nitin Sawney che ricombina le influenze asiatiche. O Anish Kapoor che, arrivato in Gran Bretagna nei primi anni Settanta dall’India, sale alla ribalta per i suoi meriti artistici rappresentati soprattutto da sculture di dimensioni monumentali, rappresentazione del “vuoto”. Viene da chiedersi quale spazio abbia in questo mosaico la tradizione ispiratrice da più di qualche secolo dello sviluppo delle istituzioni democratiche e del libero mercato.

E sì, perché se è vero che l’ultimo è stato il secolo americano, britannico deve essere definito il millennio che con esso si è concluso. Giacché le idee su cui il mondo ripone oggi la propria fiducia per lo sviluppo del benessere, benché non perfezionate in terra britannica, innegabilmente lì sono nate. A partire dalla Magna Charta Libertatum, i cui 800 anni ricorreranno nel 2015, democrazia e libertà d’impresa hanno superato la prova della storia. Oggi il free trade preconizzato da Adam Smith dilaga in parti del mondo dove fino a poco tempo era impensabile attecchisse e l’ispirazione di questo straordinario processo emancipatore iniziato grazie al contribuito determinante del pensiero di John Locke, ha permesso progressi di civiltà come l’abolizione della schiavitù. E’ in nome ed in difesa di questi valori britannici, che nel 1776 le colonie americane adottarono la Dichiarazione di Indipendenza. Osservare un deterioramento del quadro socio-economico può ben capitare nella vita delle grandi nazioni, che in quanto grandi hanno poi sempre trovato dentro se stesse le ragioni della rinascita, ma consegnarsi al deterioramento delle proprie fondamenta culturali è ben altra cosa. Un consiglio al futuro premier? Introdurre per legge, nella prima seduta in Parlamento, il famigerato cricket test al momento del rinnovo del passaporto, ma facendo attenzione che da esso vengano esclusi gli immigrati. Perché da molto ormai in questo sport le ex-colonie hanno superato il maestro.


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