Jo e il McClooneysmo
di Giuliano Ferrara
da Il Foglio, 3 settembre 2005

Pare ci sia qualche segnale di felice ambiguità, con una coppia di giornalisti antimaccartisti che si domandano se non stiano combattendo dalla parte sbagliata, ma per il resto è la solita solfa hollywoodiana molto corretta e molto bugiarda. Il Jo McCarthy di George Clooney è l’eroe negativo dell’intolleranza cieca anticomunista e il capro espiatorio della buona coscienza (anti) americana.

Infatti nessuno come gli americani, specie se liberal e ganzi, sa deformare nell’odio conformista la storia di quel paese. Il problema dell’America, come dimostrano le indegne reazioni e viscerali al ciclone Katrina, provocato dai Bush secondo quell’Howell Raines che dovrebbe godere di una pensione senza gloria per avere semidistrutto la reputazione del New York Times, è che nella lotta contro il suo fondamento, libertà proprietà e patriottismo religioso in veste laica, i circoli esclusivi della East Coast non sono secondi a nessuno nel mondo.

Joseph McCarthy era un demagogo, un tipaccio pieno di ambizione e frustrazione, un cattivo per definizione. Ma aveva ragione per l’essenziale nella sua denuncia delle reti comuniste nel Dipartimento di Stato e in altri settori dell’Amministrazione americana negli anni Cinquanta, e prima di lui ebbe ragione il grande scrittore anticomunista ed ex comunista, Wittaker Chambers, che smascherò Alger Hiss, e prima di quest’ultimo avevano ragione anticomunisti del calibro di Richard Nixon e Robert Kennedy che misero sotto tiro al Congresso, nel clima rovente del dopoguerra e della fase più incandescente della Guerra fredda, i molti nemici della democrazia liberale, i molti amici coperti di quel terzo del mondo, Unione Sovietica e Cina, che era stato ridotto in schiavitù da Stalin e Mao.

Chi si legga William Buckley Jr. e Ann Coulter, o la biografia equilibrata dedicata a Chambers da Sam Tenenhaus o la nostra lunga inchiesta di quest’inverno firmata da Andrea Mancia, saprà l’essenziale su questi prototipi della genia benedetta dei cold warriors, coloro che hanno sconfitto il comunismo sovietico contro gli appeasers d’occidente, e sulla sporca guerra culturale che li ha trasformati nel tempo in una leggenda nera, fino al blando caso di McClooneysmo dei nostri giorni. McCarthy non era un potere divenuto fascista e antidemocratico e illiberale, e non era nemmeno un piccolo garante dell’establishment alla Tonino Di Pietro. Era un pazzo ubriacone che schiaffeggiava i leoni, un cavaliere solitario che fu combattuto in modo spregioso dai benpensanti con accuse di omosessualità che oggi farebbero inorridire i loro nipoti, fino alla efficace e grottesca caricatura postuma del suo collaboratore Roy Cohn, il grande avvocato newyorkese morto di Aids, messa in scena da Al Pacino in “Angels in America”.

Credeva giusto snidare i comunisti coperti, ne fece i nomi al novanta per cento confermati dai documenti storici successivi, e fu intrappolato dai poteri forti, con la complicità della Casa Bianca di Eisenhower e la partecipazione massiccia dell’esercito e la devastante, come al solito, unanimità dei mass media, televisione in testa. Il suo nome dannato, ripetuto automaticamente da legioni di asini e di furbi come sinonimo di intolleranza e di brutalità anticomunista, ci ricorda quanto sia importante, oltre che darsi da fare nella storia, scriverla senza pregiudizio. Quanto siano importanti le guerre culturali, che spesso gli uomini disincantati perdono anche se vincano quelle politiche.

15 settembre 2005
 

La vera storia
di Joe McCarthy:

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