La vera storia di Joe McCarthy.
Capitolo 1. Il senatore venuto dal nulla

di Andrea Mancia
da Il Foglio, 29 gennaio 2005
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Che a Joe McCarthy piacesse scegliersi i propri bersagli, non è mai stato un mistero. Almeno da quando i marines della base di Guadalcanal decisero di chiamarlo “Tail Gunner Joe”, perché gli piaceva sparare dalla mitragliatrice di coda dei bombardieri Helldiver durante le missioni di ricognizione nel sud del Pacifico. La precisione della sua mira, però, sarebbe rimasta un’incognita per molti decenni, fino alla parziale apertura degli archivi del Kgb a Mosca e alla declassificazione del Venona Project che avrebbero reso giustizia alla sua battaglia anticomunista. Gli unici a conoscere la verità, fino a quel momento, erano stati proprio i suoi nemici.

Venuto dal nulla

Joseph Raymond McCarthy nasce il 14 novembre del 1908 a Grand Chute, nella contea di Shawano, in una delle fattorie che circondano la cittadina di Appleton nel nord-est del Wisconsin. Suo nonno Stephen era emigrato negli Stati Uniti dall’Irlanda mezzo secolo prima. Il padre, Tim, dopo aver sposato una ragazza di origine irlandese, aveva ereditato l’impresa agricola di famiglia e allevato, in un modesto ma dignitoso tenore di vita, sette figli. Joseph era il quinto.
Storici e polemisti avrebbero a lungo investigato sulla sua infanzia, nella speranza di trovare qualche episodio in grado di gettare luce sul carattere incostante del senatore più odiato d’America. Qualcuno ha parlato di un rapporto difficile con il padre, ma uno dei suoi migliori biografi contemporanei, Thomas Reeves, è costretto a concludere che “i McCarthy erano una famiglia felice”, in cui entrambi i genitori esercitano l’autorità domestica e i figli sono stimolati a cavarsela da soli.

Come tutti i suoi fratelli, Joe si alza all’alba e aiuta il padre a lavorare nei campi. Fin da piccolo, scrive un altro biografo eccellente, Arthur Herman, “dimostra un’energia continua ed irrequieta”. Abituato al lavoro duro, Joe passa un’adolescenza faticosa ma tranquilla, fino a quando – nel 1929 – decide di riprendere gli studi, interrotti qualche anno prima, per iscriversi alla Little Wolf High School di Manawa.

Ventunenne, in una classe di 14-15enni, Joe McCarthy riesce a passare dall’allevamento di galline al diploma senza troppi problemi. Studia il doppio dei suoi compagni, riesce a saltare anche due giorni consecutivi di sonno e si guadagna un lasciapassare per il college che sarà capace di cambiargli la vita. Entra alla Markette University, dove prima sceglie Ingegneria e poi, travolto dall’incompatibilità di carattere con la matematica, si rifugia nella facoltà di Legge, dove veleggia non troppo al di sopra della media. Proprio all’università, però, McCarthy si rende conto di essere particolarmente portato per l’attività politica.

Wisconsin e isolazionismo

Pur avendo votato in massa per il democratico Franklin Delano Roosevelt alle elezioni presidenziali del 1932, il Wisconsin restava il regno politico di “Fighting Bob” La Follette, un “progressive republican” che grazie ad un programma populista fondato sull’odio per il “big business” aveva praticamente instaurato una sorta di monopolio di potere nello stato fin dai primi anni del secolo. Alla morte di “Fighting Bob”, nel 1924, i due figli di La Follette – Philip e Robert jr. – raccolgono la sua eredità politica insediandosi rispettivamente al Senato e nella residenza del governatore a Madison. La loro alleanza sempre più stretta con FDR, però, li allontana rapidamente dai repubblicani, spingendoli a fondare il Progressive Party, un movimento populista che raccoglie più o meno la stessa base elettorale che appoggiava senza riserve il New Deal.

Fresco di laurea in legge, nel 1936 McCarthy resiste alle pressioni di alcuni suoi conoscenti per candidarsi nelle file del Grand Old Party e si presenta invece come democratico all’elezione per procuratore distrettuale nella contea di Shawano. Il suo spirito battagliero e le sue invincibili venature demagogiche vengono subito allo scoperto: accusa il candidato repubblicano (Alfred Landon) di essere un reazionario schiavo del big-business e quello progressista di praticare attività ai confini della corruzione. Ma è soltanto un assaggio del trattamento che riserva nel 1939 a Edgard Werner, suo avversario nell’elezione a giudice distrettuale. McCarthy, nel corso di una campagna elettorale aggressiva, aumenta l’età di Werner da 68 a 73 anni e si propone come il candidato del cambiamento. A niente servono le indignate smentite del suo antagonista, anche perché Werner dimostra davvero gli anni che McCarthy gli attribuisce ingiustamente. Questi “dirty tricks” verranno poi sottolineati fino alla nausea in ogni biografia scritta dopo la morte di McCarthy, a partire da quella scritta da Richard Rovere nel 1959 che ne infangherà definitivamente la memoria, ma la verità è che il giovane Joe avrebbe avuto la meglio in ogni caso su un avversario stanco e poco motivato.

McCarthy viene eletto con il 43 per cento dei voti (contro il 31 di Werner). E lavora sodo, almeno il doppio dei suoi colleghi, tanto che riesce a disfarsi di 200 casi arretrati, spingendo un giornale locale a scrivere che “amministra la giustizia speditamente e combinando le proprie conoscenze legali con il buon senso”. Intorno al suo tribunale, intanto, il duopolio democratici-progressisti che governa il sistema politico del Wisconsin sta lentamente cadendo a pezzi. Demolito da un nemico con un nome ambiguo: isolazionismo.

La diffidenza nei confronti dell’Europa, la paura di veder trasformare gli Stati Uniti in un super-stato centralizzato e tiranneggiato dalle burocrazie, i primi segni di insofferenza nei confronti della pianificazione economica imposta dal New Deal: l’America degli ultimi anni Trenta non sembra avere alcuna intenzione di imbarcarsi in una guerra per conto dei propri “alleati” del Vecchio Continente. Il 47% dei cittadini statunitensi, secondo un sondaggio Gallup, è contrario all’intervento Usa in Europa. E più del 65% è convinto che anche la partecipazione alla prima guerra mondiale sia stato un colossale errore.

Proprio nel 1939 il Senato approva il Neutrality Act e le ragioni degli isolazionisti sembrano destinate a prevalere nell’arena del dibattito politico statunitense. Ma è un’impressione di breve durata. La caduta della Polonia e della Francia, l’attacco nazista all’Unione Sovietica e una serie di errori tattici sul fronte interno, come il discorso anti-semita di Charles Lindberg durante un comizio dell’associazione “America First”, fanno perdere colpi alle istanze isolazioniste. Roosevelt vince le elezioni presidenziali per la terza volta consecutiva, anche se con un margine molto più ristretto che in passato (soprattutto in Wisconsin, dove passa dal 63%-30% del 1936 ad un risicato 50%-48%). Nell’agosto 1941 la Camera approva (per un solo voto) l’Atlantic Charter del presidente. A novembre i due rami del Congresso modificano il Neutrality Act. Un mese dopo, l’aviazione giapponese sta sfrecciando verso Pearl Harbor.

La politica, i marines e la Guerra Fredda

Il 29 luglio del 1942, mentre la seconda guerra mondiale sta completando il processo di trasformazione industriale avviato dal New Deal, Joe McCarthy entra nei servizi di intelligence dei marines, malgrado il suo ruolo di giudice lo renda esente dal servizio militare obbligatorio. Naturalmente la sua scelta è anche dettata da motivi di opportunismo politico, ma le migliaia di pagine scritte per sottolineare lo scarso numero di missioni da combattimento a cui partecipa McCarthy nel Pacifico del Sud (una dozzina) non sottolineano quasi mai che Tail-Gunner Joe, in teoria, avrebbe potuto rimanere comodamente seduto dietro una scrivania per tutta la durata del conflitto. Dopo 30 mesi di servizio, una ferita di guerra piuttosto dubbia e una citazione di merito firmata dall’ammiraglio Chester Nimitz, McCarthy torna a casa. Ma non prima di aver gettato le fondamenta della sua futura carriera politica.

Nel 1943, infatti, annuncia la sua intenzione di candidarsi al Senato, partecipando alle primarie del partito repubblicano contro l’incumbent Alexander Wiley. Con una bizzarra campagna elettorale a distanza, a cui partecipa effettivamente soltanto nelle settimane immediatamente precedenti al voto, McCarthy conquista la maggioranza nella contea di Shawano e in quelle confinanti, ma non va oltre il 28% in tutto il Wisconsin, mentre Wiley supera il 60%. Si tratta di una sconfitta annunciata, ma l’esperienza gli serve per rodare la propria macchina organizzativa, stabilire contatti in vista delle elezioni del ’46 e venire rieletto, senza opposizione, alla carica di giudice.

Nel gennaio del 1945 McCarthy lascia ufficialmente i marines. Proprio in quei giorni a Washington, poche settimane dopo la scontata rielezione del “presidente di guerra” Roosevelt alla Casa Bianca (il suo avversario repubblicano, Thomas Dewey, vince però di misura in Wisconsin), esplode lo “scandalo-Amerasia”. Kenneth Wells, un ufficiale dell’Office of Strategic Studies (OSS), si accorge con stupore che una rivista con forti inclinazioni sinistrorse che si occupa di politica asiatica ha pubblicato, parola-per-parola, un rapporto segreto da lui scritto per il Dipartimento di Stato. Il dossier, che contiene anche informazioni “sensibili” su un gruppo di resistenza anti-giapponese ancora attivo in Thailandia, compare senza firma sulla rivista Amerasia sotto il titolo “British Imperial Policy in Asia”. Wells, sulle prime, ha un mancamento. Poi manda gli investigatori dell’OSS a perquisire la redazione della rivista, dove viene scoperta una camera oscura piena di fotografie di documenti “top secret”, tutti provenienti da Washington. E’ una rivelazione sconvolgente. Finiscono in carcere il direttore della rivista, Philip Jaffee, il giornalista Mark Gayn e tre impiegati federali: Emmanuel Larsen e John Stewart Service (del Dipartimento di stato) e Andrew Roth (ufficiale della Navy Reserve). Larsen, Service e Roth passavano regolarmente documenti riservati a Jaffee, che si scoprirà essere legato al partito comunista statunitense e alla spia sovietica Joseph Bernstein. Mentre Roth intratteneva rapporti cordiali con un alto esponente del partito comunista cinese in “missione” a New York. Per la prima volta, viene portato alla luce un “active soviet espionage ring” operante all’interno del potere esecutivo americano. La seconda guerra mondiale non è ancora finita. E la Guerra Fredda è già cominciata.

Dal Sud Pacifico a Washington

Nel 1946 Robert La Follette Jr. annuncia ai cittadini del Wisconsin la propria candidatura al Senato, questa volta tra le file del partito repubblicano. Contro di lui, in un’elezione primaria che si annuncia più combattuta delle elezioni vere e proprie, si presenta il giovane giudice Joe McCarthy. La sua campagna elettorale è sensazionale: batte lo stato palmo a palmo, percorrendo più di 80mila miglia in automobile in pochi mesi; ottiene senza troppi sforzi l’appoggio degli Young Republicans, turbati dal programma “progressista” di La Follette; vince anche la diffidenza del capo del partito nel Wisconsin, Tom Coleman, che gli concede il proprio endorsement quasi per stanchezza, impressionato dalla sua combattività e dalla sua capacità di lavorare ad ogni ora del giorno e della notte.

Il programma di McCarthy è centrato sulla riduzione delle tasse e sulla politica agricola. Ma non mancano le sortite in politica estera, come quando picchia duro sulla strategia di Harry Truman (diventato presidente dopo la morte di Roosevelt) sottolineando – non a sproposito – la disastrosa strategia internazionale degli Stati Uniti nei confronti di Austria, Polonia e paesi baltici. Tail-Gunner Joe attacca frontalmente anche La Follette, accusandolo di aver favorito l’infiltrazione dei comunisti nei sindacati del Wisconsin. I comunisti, da parte loro, ce l’hanno a morte proprio con La Follette, a causa delle sue posizioni isolazioniste durante la guerra.

Dopo una campagna elettorale durissima, McCarthy vince a sorpresa le primarie repubblicane con il 41% dei voti, contro il 40% di La Follette. Soltanto 5.300 voti separano i due. E con un risultato migliore a Milwaukee (dove McCarthy ha prevalso di diecimila voti), feudo indiscusso della propaganda rossa, probabilmente La Follette avrebbe potuto strappare la candidatura al suo avversario. Ormai, però, il “danno” è fatto. I comunisti si stringono intorno al democratico Howard McMurray, rinunciando a presentare un proprio candidato. Ma non basta: perché McCarthy vince le elezioni con oltre 250mila voti di vantaggio e sconfigge la coalizione “liberal-sovietica”, che aveva sprecato il grosso delle proprie munizioni propagandistiche contro il “fascista” La Follette.
L’onda lunga repubblicana travolge tutto il paese. Con una campagna elettorale riassunta dallo slogan “Had Enough?”, il Grand Old Party scuote le coscienze dei cittadini statunitensi e promette una rivoluzione anti-statalista per superare finalmente l’emergenza del New Deal e far tornare il welfare entro i confini di un’economia di libero mercato. Ma è l’anticomunismo a giocare una parte fondamentale nello scontro politico. Per Robert Taft dell’Ohio, il “Mr. Republican” che guida il GOP al Senato, “i democratici hanno praticato l’appeasement con i russi e allevato i comunisti in casa”. Ma anche altri, come il congressmen Carroll Reece (Tennessee) e l’ex tenente di vascello Richard Nixon (California), conducono una campagna elettorale all’insegna del “pericolo rosso”. Il leader della minoranza alla Camera, Joe Martin (Massachusetts), promette che in caso di vittoria repubblicana “il Congresso stanerà tutti coloro che stanno provando a distruggere lo stile di vita americano”. La risposta dei cittadini americani è travolgente.

Alla Camera i repubblicani passano da 191 a 246 seggi, mentre i democratici crollano da 242 a 188. Con il miglior risultato dal 1894, il GOP conquista anche il controllo del Senato con 54 seggi. Dei 64 membri più liberal del Congresso, secondo una classifica stilata da New Republic, ben 37 non vengono rieletti. I repubblicani crescono nelle aree suburbane del Nord-Est, del Michigan e dell’Illinois. In Connecticut, come del resto in Wisconsin, i democratici perdono tutti i loro seggi al Congresso. Il risultato di McCarthy, che conquista la maggioranza in 70 contee su 73, è in linea con questa vittoria schiacciante. Anzi, come non mancheranno di ricordare i suoi biografi, si tratta di una performance leggermente al di sotto della media nazionale. Ma la sostanza non cambia, perché Joe McCarthy vince le elezioni e diventa, all’età di 38 anni, il più giovane membro del Senato nell’80° Congresso della storia degli Stati Uniti.

Il Senato e la “classe del ‘46”

McCarthy arriva a Washington verso la fine del 1946, nel periodo di massima espansione della burocrazia federale. I 900mila impiegati governativi del 1939 sono diventati più di 3 milioni, di cui oltre 250mila soltanto nell’area urbana della capitale. E’ tra le fila di questa burocrazia che il KGB di Vassili Zarubin sta reclutando la maggior parte delle proprie spie in territorio americano. Il “grande vecchio” dello spionaggio sovietico si è trasferito a Washington proprio in quegli anni, ma nel 1945 uno dei suoi “corrieri” lo tradisce e passa al nemico. Le rivelazioni di Elizabeth Bentley all’FBI provocano un terremoto politico all’interno dell’amministrazione democratica. Secondo la Bentley, tra gli impiegati dell’esecutivo ci sono almeno una ventina di agenti attivi del KGB (tra cui molti ex militanti del partito comunista statunitense). E questo soltanto nel network di spie a cui la Bentley faceva riferimento. Al di fuori di questa cerchia: altre decine, forse centinaia di informatori regolarmente stipendiati dall’Unione Sovietica di Stalin. “L’esecutivo sedeva su una bomba politica ad orologeria”, scrive lo storico Arthur Herman. Joe McCarthy sarà una delle micce in grado di far esplodere questa bomba. Ma non l’unica.

Il potere legislativo, che a differenza di quello esecutivo non ha praticamente conosciuto alcuna espansione durante la guerra, nel 1946 comincia a riorganizzarsi. Ma anche se si tratta di un Congresso dai forti connotati conservatori (“The hand out era is over”, scriveva David Lawrence su US News & Reports), il giovane McCarthy non riesce ad inserirsi più di tanto nei bizantini meccanismi del Senato. Eletti dalle State Legislatures prima del 1910, i senatori – da quando sono sottoposti al vaglio del mandato popolare – sono diventati il fulcro del sistema di pesi e contrappesi che governa il Congresso americano. Ma se la Camera è l’arena dello scontro politico, il Senato diventa presto un tempio pagano del compromesso, in cui la “seniority”, le procedure ed i rapporti personali giocano spesso un ruolo più importante dell’appartenenza ideologica e della rappresentanza degli interessi dei cittadini. A Washington, McCarthy non riuscirà mai a “penetrare” il secondo dei due cerchi concentrici di potere che compongono il Senato. E non sarà mai in grado di costruirsi una solida “base di consenso” tra i suoi colleghi, come la censura del 1954 avrebbe poi drammaticamente dimostrato. Troppo impaziente per i ritmi compassati dei suoi colleghi, McCarthy appartiene a quella categoria di “amateur” che non hanno il piglio (e il cinismo) dei “professionisti della politica” che dominano il caucus degli eletti nel partito democratico. Brillante con la stampa e sempre in grado di generare pubblicità e titoli a nove colonne, McCarthy non ha la capacità e il background culturale per immergersi “inside the Beltway”, per coltivare i rapporti necessari a proteggerlo nel momento della difficoltà.

Questo non significa, naturalmente, che McCarthy non abbia alleati o anche amici tra i suoi colleghi. Ma si tratta di “amateur” come lui. William Jenner (Indiana), Harry Cain (Washington State), John Sherman Cooper (Kentucky) o William Knowland (California), per esempio, anche loro freshmen della classe del ’46. E gli uomini di Taft, che per anni aveva praticamente combattuto da solo contro il New Deal (“la forza più reazionaria della storia”): Zale Ecton, James P. Kem, George Malone e John Bricker, interpreti dell’anima “dura e pura” del GOP. Alla Camera, McCarthy troverà la sponda di Glen Davis, anche lui eletto in Wisconsin, e soprattutto di un giovane congressman della California che ha fatto dell’anticomunismo uno dei punti centrali del proprio programma: Richard Nixon. Più tardi, dopo le elezioni del 1948, McCarthy avrà anche l’appoggio del senatore dell’Arizona che avrebbe sconvolto le fondamenta del movimento conservatore americano: Barry Goldwater.

Ci sono, in linea di massima, due sentieri interpretativi per giudicare i primi anni di McCarthy al Senato. Il primo, quello che è entrato di prepotenza nella vulgata biografica che non fa niente per nascondere il suo disprezzo nei confronti di Tail-Gunner Joe, è giudicare il suo primo mandato (fino al discorso di Wheeling) un flop disastroso, da cui McCarthy tenta di sottrarsi “inventandosi” l’esigenza di combattere il “pericolo rosso”. A sostegno di questa tesi c’è poco, a parte un celebre sondaggio condotto all’epoca tra i giornalisti parlamentari di Washington, che giudicano McCarthy “il peggior senatore degli Stati Uniti”. La seconda strada, più ricca di aneddoti e testimonianze, è quella di considerare McCarthy il più brillante e popolare dei freshmen del ’46, ricercatissimo da pubblico e giornalisti (anche se non da quelli che sguazzano “inside the Beltway”), famoso soprattutto tra le croniste del gentil sesso per le sue cene a base di pollo fritto fatto in casa. Restando ai nudi fatti, McCarthy si classifica al 9° posto nella lista dei congressman più conservatori del biennio 1947-1948 stilata da una rivista di tendenze liberal.

Le elezioni del ‘48. Primi problemi per McCarthy

Nel 1948, il partito repubblicano compie uno dei classici hara-kiri che spesso caratterizzano la sua storia nel XX secolo: lascia prevalere la sua anima “moderata”, presenta alla Camera e al Senato un nugolo di “Rockfeller liberals” e insiste nella candidatura perdente di Thomas Dewey contro Harry Truman nella corsa alla Casa Bianca. Le elezioni sono un disastro: Truman vince con oltre 2 milioni di voti di scarto, malgrado la doppia scissione che colpisce il partito democratico da destra con J. Strom Thurmond e da sinistra con Henry Wallace (che insieme raccolgono quasi 3 milioni di voti). Come se non bastasse, il GOP subisce una pesante battuta d’arresto anche al Congresso e perde il controllo di entrambe le Camere.

Il vento, anche in Wisconsin, inizia a soffiare di traverso. McCarthy viene allontanato dal prestigioso Banking Committee e parcheggiato nell’oscuro comitato “per il distretto di Columbia”. Le Unions del Wisconsin lo mollano quando vengono a sapere della sua intenzione di votare a favore di nuove leggi per il controllo dei sindacati. I veterani dell’American Legion, suoi sostenitori della prima ora, lo attaccano quando il senatore si dichiara contrario all’obbligatorietà dell’addestramento militare nelle scuole. Uno dei giornali più letti di Madison, capitale del Wisconsin, il Capital Times del “progressista” William Eujue, comincia a farne uno dei propri bersagli preferiti. Eujue, insieme al suo giornalista Miles McMillin, diventa un nemico giurato di McCarthy e diffonde le storie più disparate sul suo conto. La maggior parte sono inventate di sana pianta (come una presunta evasione fiscale che si risolve con un risarcimento da parte del fisco), il resto sono esagerate a dismisura (come lo “scandalo” del Quaker Dairy Case). Su almeno due di queste campagne-stampa, però, McCarthy rischia di perdere una parte della sua credibilità.

Il Capital Times lo addita come “The Pepsi-Cola Kid” quando scopre che un imbottigliatore della bibita ha finanziato con 20mila dollari la sua campagna elettorale e che lui, per ricambiare, si è battuto per la deregolamentazione delle razioni post-belliche di zucchero (necessario in grandi quantità per produrre la dolce bevanda gassata). La verità è che tutto si è svolto ampiamente entro i confini della legalità, soprattutto per gli standard dell’epoca, ma per la prima volta Eujue riesce a scalfire l’immagine pubblica di McCarthy.

Un’altra storia che il senatore non riesce a gestire con furbizia è il cosiddetto “Malmédy Case”, che scoppia nel ’49 quando un gruppo di ufficiali delle Waffen SS viene processato da un tribunale americano con l’accusa di aver massacrato decine di prigionieri disarmati dopo la battaglia di Bulge, in Francia. McCarthy non è convinto dell’impianto accusatorio, compie delle indagini per conto proprio e si mette in testa che, nella migliore delle ipotesi, l’esercito abbia gonfiato le prove e si sia comportato scorrettamente. Da qui alle accuse di filo-nazismo da parte della stampa nemica il passo è breve. La stessa sorte, del resto, era toccata qualche anno prima a Taft, “colpevole” di aver osato criticare le procedure del processo di Norimberga. McCarthy, però, non ha la statura di Mr. Republican e resta isolato all’interno del partito. Soltanto fuori da Washington, tra le speranze e le paure della gente comune, troverà la forza necessaria per reagire a questa solitudine.

1/continua

15 settembre 2005

Leggi il secondo capitolo
 

La vera storia
di Joe McCarthy:

Capitolo 1
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