La vera storia di Joe McCarthy.
Capitolo 3. Tail-Gunner Joe va alla guerra

di Andrea Mancia
da Il Foglio, 12 febbraio 2005
[scarica la versione originale in formato pdf]

Il comitato Tydings si riunisce per la prima volta l’8 marzo del 1950 nel palazzo degli uffici del Senato, sotto le luci abbaglianti dei riflettori televisivi. In teoria, Joe McCarthy dovrebbe illustrare in dettaglio le sue accuse nei confronti del Dipartimento di stato, dimostrando la negligenza con cui la Casa Bianca ha affrontato il problema dell’infiltrazione di spie comuniste nel cuore del potere esecutivo. In pratica, il vero bersaglio dell’inchiesta è proprio McCarthy.

La composizione del comitato è stata pianificata con cura dal leader della maggioranza al Senato, Scott Lucas. Il presidente è Millard Tydings, cinquantanove anni, eletto in Maryland, un caro amico di Truman che ha intenzione di barattare lo scalpo di McCarthy con la candidatura alla vicepresidenza (o con qualsiasi posto di prestigio nel governo) alle elezioni del 1952. Il suo attaccante di sfondamento è Brien McMahon del Connecticut, un classico progressive democrat che si è distinto per un rumoroso dissenso contro il discorso tenuto da McCarthy al Senato poche settimane prima. Per McMahon, Tydings e Theodor Francis Green, un ricco aristocratico eletto nel Rhode Island, la falsità delle affermazioni del junior senator del Wisconsin è un dato di fatto. Una verità che non ha alcun bisogno di essere approfondita. E se il senatore repubblicano dell’Iowa, Bourke Hickenlooper, può essere considerato un potenziale alleato di McCarthy, lo stesso non vale per Henry Cabot Lodge del Massachusetts, un esponente del GOP con una lunga carriera bipartisan alle spalle sul cui voto Lucas e Tydings confidano per mettere sistematicamente in minoranza il “red hunter”.

McCarthy, con molta cautela, cerca di marcare i confini del territorio all’interno del quale è costretto a muoversi, vista la quasi totale assenza di poteri investigativi che i democratici hanno voluto attribuire al comitato. Dichiara di essere un semplice “testimone” pronto a collaborare con i suoi colleghi nella ricerca della verità. Ma i suoi avversari non hanno alcuna intenzione di accettare queste regole del gioco. “Lei è l’uomo che ha provocato la creazione di questo comitato – gli dice Tydings, senza troppi giri di parole – e dunque sarà l’oggetto di una delle indagini più meticolose mai effettuate nella storia della repubblica”. Il senatore del Maryland cerca immediatamente di ottenere una trascrizione del discorso di Wheeling, con l’obiettivo di provare che McCarthy ha detto il falso quando ha denunciato l’esistenza di 205 comunisti al Dipartimento di stato. Cifra già limata dallo stesso McCarthy a 58. Poi prova a far sì che le sue dichiarazioni del 20 febbraio in Senato siano considerate come “rilasciate sotto giuramento” per poterlo successivamente accusare di falsa testimonianza. McMahon tenta addirittura di additare McCarthy come responsabile della decisione di rendere pubbliche le sedute del comitato, decisione a cui tutta la delegazione repubblicana ha invece provato ad opporsi senza successo.

In questa atmosfera di caccia all’uomo (la cui vittima, per ironia della sorte, è proprio McCarthy), le prime udienze si rivelano un disastro. La stampa si schiera immediatamente dalla parte della maggioranza e dipinge i vecchi senatori democratici e segregazionisti come un manipolo di eroi dal grande cuore liberal che vuole evitare una serie disdicevole di palesi ingiustizie. Quando Dorothy Kenyon, il primo dei target di Tail-Gunner Joe, compare davanti al comitato, ammette di aver fatto parte di una dozzina di organizzazioni comuniste e spiega che nessuno, al Dipartimento di stato, le ha mai chiesto spiegazioni per questo suo passato turbolento. Poi accusa McCarhty di adoperare metodi simili a quelli di Hitler e Stalin. La sostanza delle dichiarazioni della Keynon, però, conferma totalmente il nocciolo duro della teoria di McCarthy: il Dipartimento di stato era stato lento e pigro nel trattare con gli impiegati che rappresentavano un rischio per la sicurezza nazionale. Ma questo è esattamente il terreno di scontro che i democratici stanno disperatamente cercando di evitare. E così Tydings insiste, udienza dopo udienza, nel tentativo di obbligare McCarthy a provare in dettaglio ogni singola accusa: un’impresa oggettivamente impossibile, viste le limitazioni a cui il comitato è stato sottoposto dallo stesso Tydings.

Owen Lattimore: un Alger Hiss mancato per McCarthy

Spinto dalla scarsità di tempo e di risorse a disposizione, McCarthy si imbatte in un rapporto dell’FBI su Owen Lattimore. E nella sessione speciale del 22 marzo lo indica come una “top spy di Mosca alla testa dello stesso circolo di spie di cui Alger Hiss faceva parte”. In quei giorni, Owen Lattimore è il direttore della scuola di relazioni internazionali della Johns Hopkins University. Ma la sua carriera è cominciata molti anni prima. Esperto di Mongolia, nel 1941 diventa il consigliere personale di Roosevelt sulle questioni cinesi e nel 1944 accompagna l’allora vicepresidente William Wallace in un lungo viaggio in Russia ed Estremo Oriente. L’influenza di Lattimore nella definizione della politica estera americana va oltre il ruolo ufficiale: i suoi libri ed articoli sulla Cina sono trattati con deferenza dai giovani funzionari del Dipartimento di stato, tanto che le sue tesi pro-maoiste diventano la base teorica della disastrosa politica statunitense nell’area (che porta al crollo della Cina nazionalista e all’alleanza tra Mao e l’URSS). Ancora più imbarazzante è la sua visione dell’Unione Sovietica. Lattimore considera la dittatura sovietica come un “modello progressista” e le purghe staliniste degli anni Trenta come un “esempio di democrazia”. Nella sua visita con Wallace ai campi di lavoro di Magadan, riesce a comparare i gulag siberiani con la Tennessee Valley Authority, parlando con calore del senso civico degli aguzzini di Stalin. Ardente isolazionista durante gli anni del patto di non aggressione nazi-comunista, Lattimore cambia improvvisamente idea nel giugno del 1941, quando Hitler decide di invadere l’Unione Sovietica.

Come direttore della rivista Pacific Affairs, Lattimore sostiene costantemente – ma con scaltrezza - la strategia di politica estera di Stalin. E nel 1948 partecipa ad un vertice di altissimo livello in cui convince il segretario di stato, George C. Marshall, che l’interesse degli Stati Uniti è quello di interrompere qualsiasi appoggio, economico e militare, alla Cina nazionalista per stringere una fruttuosa amicizia con i comunisti di Mao, ormai destinati (a suo dire) ad una rapida conquista del paese. Marshall credeva di ascoltare i consigli di un esperto dell’area. In realtà, siede di fronte ad un portavoce ufficioso dell’ideologia sovietica.
McCarthy, che ha in mano un dettagliato rapporto dell’FBI, è pronto a chiamare l’ex direttore del Daily Worker, Louis Budenz (comunista “pentito”), a testimoniare di fronte al comitato per confermare che Lattimore è parte attiva di una cricca di agenti sovietici. I democratici fiutano il pericolo e serrano le fila, deridendo le insensate accuse di McCarthy. Lattimore, da parte sua, organizza un poderoso contrattacco mediatico-accademico. Di fronte al comitato, circondato dalla famiglia, da colleghi e da simpatizzanti, il magro ed occhialuto professore legge per un’ora e quarantacinque minuti la sua auto-difesa, giudicando l’intera vicenda come “il parto di una mente perversa”. Quattro giorni più tardi, Budenz conferma che Lattimore lavorava per Mosca, sotto la copertura dell’Institute of Pacific Relations e che John Stewart Service (il funzionario del Dipartimento di stato in carcere per lo scandalo Amerasia) era un suo protégé. La reazione di Lattimore e compagni è devastante. Con un gioco incrociato di indiscrezioni alla stampa ed attacchi personali, Lattimore distrugge la credibilità di Budenz; poi si lancia in un accorato appello alla nazione nel tentativo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal suo caso per concentrarla nei confronti di McCarthy e dei suoi metodi, paragonati ad “una invasione barbarica che avrebbe distrutto il tessuto civico dell’America”.

L’operazione è un temporaneo successo: per i liberal, Lattimore diventa l’eroe del giorno. Il New York Times, il Washington Post e il Baltimore Sun lo portano in trionfo e pubblicizzano senza ritegno il suo libro “Ordeal by Slander”, in cui per la prima volta viene adoperato il termine mccarthyism. L’attacco dei barbari anticomunisti all’establishment liberal sembra sventato per sempre.
In realtà basteranno un paio d’anni per iniziare a rendersi conto che l’Owen Lattimore di McCarthy è molto più vicino alla realtà di quello dipinto con tanta enfasi dalla stampa. Nel 1952 il nuovo leader del comitato senatoriale per la sicurezza interna, Pat McCarran, avrebbe ripreso ad indagare su Lattimore partendo dalla pista abbandonata da McCarthy, scoprendo che il junior senator del Wisconsin aveva ragione quasi su tutto. Soltanto un errore di procedura eviterà all’eroe dei liberal il carcere per falsa testimonianza. Qualche decennio dopo, poi, la decrittazione dei messaggi intercettati grazie al Venona Project e le memorie della spia comunista cinese Chen Han-shen confermeranno, senza ombra di dubbio, che Lattimore era lo strumento “cosciente” di una cospirazione sovietica ai danni degli Stati Uniti. McCarthy aveva ragione, dunque. Ma la fretta e l’inesperienza gli avevano impedito di giocare al meglio le sue carte.

Philip Jessup, la guerra in Corea
e i “wise men” del Dipartimento di stato


Frustrato dal caso Lattimore, McCarthy decide di cambiare tattica. E sposta il confronto su un piano più squisitamente politico, scegliendo un obiettivo ancora più vicino ai processi decisionali dell’amministrazione Truman: l’ambassador-at-large Philip Jessup. McCarthy accusa Jessup di aver fatto parte di una serie di organizzazioni pro-sovietiche negli anni Trenta e sottolinea il suo ruolo di vicepresidente dell’American Council all’interno del chiacchieratissimo Institute of Pacific Relations. McCarthy non si spinge fino a definire Jessup una spia, ma si limita a catalogarlo come un liberal ingenuo che i veri comunisti come Lattimore riescono ad ingannare senza troppi sforzi. Malgrado la reazione indignata dei democratici e di Jessup, che sventola in faccia ai membri del comitato le lettere scritte in suo sostegno da Dwight Eisenhower e George Marshall, McCarthy riesce finalmente ad ottenere il risultato minimo che si è prefissato: attirare l’attenzione di settori sempre più vasti dell’opinione pubblica. La campagna di stampa dei giornali liberal, naturalmente, raddoppia d’intensità, ma anche i suoi avversari iniziano a rendersi conto che McCarthy è un osso duro.

Le schermaglie nel comitato Tydings vanno avanti per settimane, fino a quando il 4 maggio Truman accetta a malincuore di concedere al Senato la visione dei documenti riservati che riguardano i funzionari “a rischio” del Dipartimento di stato. La maggioranza democratica, però, non ha alcuna intenzione di indagare a fondo. E si limita a prendere atto della linea ufficiale dell’amministrazione, secondo cui non esiste alcun concreto rischio di spionaggio. Il 25 giugno, proprio mentre i repubblicani stanno ancora protestando per l’atteggiamento irresponsabile di Tydings e colleghi, a migliaia di chilometri da Washington le truppe di terra nordcoreane attraversano il 38° parallelo ed invadono la Corea del Sud. Per McCarthy e per la maggior parte dei cittadini americani non servono prove ulteriori. Le amministrazioni democratiche hanno pericolosamente sottovalutato la minaccia comunista.
Il 6 luglio, con un impetuoso discorso al Senato, McCarthy si prende una solenne rivincita e attribuisce la responsabilità della fallimentare politica asiatica degli Stati Uniti ad un gruppo di “altolocati consiglieri rossi” del Dipartimento di stato, i cui consigli “sono stati più letali delle mitragliatrici coreane”. Intanto, incurante dell’accelerazione degli eventi, il comitato prosegue il suo inutile lavoro come se niente fosse successo. Il 29 giugno, mentre Tydings cerca di convincere i democratici più riluttanti ad approvare la relazione finale, l’esercito nordcoreano entra a Seoul. Il 17 luglio, mentre il senatore del Maryland sta limando il rapporto con cui ribadisce che McCarthy è un pazzo visionario e che “il governo è assolutamente privo di infiltrazioni comuniste”, l’FBI annuncia l’arresto di Julius Rosenberg con l’accusa di spionaggio.

I coniugi Rosenberg, il generale MacArthur
e il collasso dei democratici


Julius Rosenberg non è un funzionario del Dipartimento di stato, ma ha lavorato per l’esercito degli Stati Uniti in una delle operazioni top-secret più importanti del secolo: il Manhattan Project. E il suo arresto (insieme a quello della moglie Ethel dell’11 agosto) prova, oltre il più ragionevole dei dubbi, che McCarthy ha perfettamente ragione nel denunciare la negligenza del governo rispetto ai problemi della sicurezza nazionale e dell’infiltrazione di spie comuniste nei gangli del potere esecutivo. Spinto in un angolo dalle dinamiche politico-mediatiche del comitato Tydings, il senatore del Wisconsin riesce così ad uscire sorprendentemente vincitore dal gioco al massacro voluto dai democratici a Capitol Hill. Anche se i reporter e i vignettisti del Washington Post iniziano a prenderlo regolarmente di mira, infatti, Tail-Gunner Joe diventa improvvisamente il politico conservatore più ricercato dai cronisti in cerca di qualche replica pungente alle dichiarazioni di Truman o Lucas. E intorno alla sua figura inizia a compattarsi un numero sempre maggiore di sostenitori. Celebri anticomunisti come Whittaker Chambers e J.B. Matthews gli offrono consigli ed informazioni, ma anche i vertici del partito repubblicano cominciano a rendersi conto che - in vista delle elezioni di mid-term di novembre – la battaglia di McCarthy può rivelarsi un fattore vincente.

Coccolato dalla base del partito, che apprezza anche il suo recente coinvolgimento sentimentale con la giovane impegata del Senato, Jean Kerr, McCarthy diventa la lama più affilata della campagna elettorale repubblicana e il 9 giugno a Milwaukee pronuncia il “keynote address” alla convention del partito in Wisconsin. Il junior senator è improvvisamente cresciuto.
Per i democratici, invece, sembra che i guai non finiscano mai. Dopo l’invasione della Corea, l’approval rating di Truman è crollato al 39%, mentre quello del suo segretario di stato, Dean Acheson, veleggia ormai intorno al 20. La fiducia degli americani nei confronti di un’amministrazione che preferisce condurre la guerra a colpi di risoluzioni Onu invece che sfruttare fino in fondo la propria superiorità militare è ai minimi storici. E in questo contesto già difficile si innesta lo scontro durissimo tra Truman e il generale Douglas MacArthur, che si è dimostrato in grado di frenare l’avanzata nordcoreana ribaltando le sorti del conflitto.
Nell’ottobre del 1950, le truppe americane espugnano la capitale nordcoreana Pyongyang. Il 24 novembre, MacArthur dice alla stampa che conta di concludere vittoriosamente le operazioni militari entro Natale. Il giorno dopo, 300mila soldati cinesi irrompono nel conflitto, attaccando le forze alleate sulle rive del fiume Yalu. Inizia una fase completamente nuova della guerra. Un confronto totale con la Cina comunista rischierebbe di coinvolgere anche l’Unione Sovietica e le sue armi nucleari (prodotte grazie alle spie infiltrate nel Manhattan Project). Cosi, senza poter organizzare una risposta militare massiccia, per tutto l’inverno l’esercito statunitense è costretto a ritirarsi verso sud. La Casa Bianca, aizzata dai “wise men” del Dipartimento di stato, è convinta che l’escalation della crisi sia stata provocata dall’avanzata troppo temeraria di MacArthur in Corea del Nord. Una tesi che la storiografia avrebbe poi smentito categoricamente. In realtà i cinesi, grazie anche all’aiuto delle due spie inglesi Guy Burgess (all’Onu) e Donald Maclean (all’ambasciata britannica di Washington), erano in grado di anticipare qualsiasi mossa di americani e alleati.

Truman e i “wise men” vietano a MacArthur di coinvolgere le truppe della Cina nazionalista di Chiang nel conflitto e gli proibiscono anche di bombardare le linee di rifornimento dell’esercito maoista che si trovano sul lato cinese del confine. Furioso con l’amministrazione democratica, MacArthur riesce comunque a capovolgere, ancora una volta, la dinamica del conflitto. Il 14 marzo del 1951 le truppe Onu guidate dagli Stati Uniti riconquistano Seoul. Il 19 marzo Truman, il segretario di stato Acheson e il ministro della difesa Marshall decidono di invitare Mao ad un tavolo di negoziati per la pace. Marshall non ci sta. E lancia un secco ultimatum alla Cina comunista: ritiro delle truppe dalla penisola coreana o guerra totale. La proposta di negoziato fallisce e la Casa Bianca decide di rimuovere MacArthur dall’incarico, accusandolo di aver sabotato la strategia dell’amministrazione. Per i democratici, si tratta di una mossa dalle conseguenze disastrose. Il generale scrive al leader repubblicano della Camera, Joe Martin, per lamentarsi della “strana difficoltà” con cui l’esecutivo elabora le proprie strategie di contenimento della minaccia globale comunista. “Se perdiamo questa guerra – spiega MacArthur – anche la caduta dell’Europa sarà inevitabile. Non c’è nessun sostituto per la vittoria”. Il 30 marzo Julius ed Ethel Rosenberg vengono giudicati colpevoli di spionaggio. Il 4 aprile il giudice Irving R. Kaufman, nel firmare la condanna a morte, dice chiaramente che li reputa in qualche misura responsabili anche per il sangue americano versato in Corea.

Dopo la rimozione di MacArthur, la Casa Bianca riceve 100mila telegrammi di protesta in un solo giorno. Secondo un sondaggio Gallup, il 66% dei cittadini americani disapprova la decisione di Truman e appoggia l’intransigenza anticomunista di MacArthur. E i repubblicani, che hanno appena vinto le elezioni di mid-term (ma non abbastanza nettamente da riconquistare il controllo di Camera e Senato), decidono di cavalcare l’ondata di sdegno che sta attraversando il paese in vista delle presidenziali. MacArthur torna in America il 18 aprile, accolto a San Francisco con una parata degna di un imperatore romano. Nei giorni immediatamente successivi, tutti gli esponenti di rilievo del GOP si scagliano violentemente contro Truman. Sotto i colpi durissimi di Taft, Nixon, Jenner e McCarthy, i democratici sono costretti a concedere l’apertura di un’inchiesta congressuale sulla politica dell’amministrazione in Estremo Oriente. Per la prima volta, il partito di Wilson e Roosevelt inizia ad essere pubblicamente identificato come “il partito del tradimento”.

L’82° Congresso e l’attacco di McCarthy a Marshall

“I democratici disprezzano McCarthy, ma in realtà sono terrorizzati”, scrive il settimanale Newsweek all’apertura dei lavori dell’82° Congresso. Per il New York Times, Tail-Gunner Joe è addirittura “uno dei senatori repubblicani più potenti”, mentre il Christian Century, che lo ha attaccato a ripetizione negli ultimi anni, afferma che “il senatore è qui per restare, che ci piaccia o no”. Malgrado il clamore della stampa, McCarthy non è ancora una stella di prima grandezza nel firmamento di Capitol Hill. Il comitato senatoriale sulla Sicurezza Interna presieduto dal repubblicano Pat McCarran, che indaga su Lattimore e l’IPR seguendo la stessa pista di McCarthy, non lo vede neppure tra i suoi membri. I “vecchi” repubblicani del Senato ancora non si fidano di lui e preferiscono lasciarlo confinato nel Permanent Subcommittee on Investigations.
Sebbene il suo indice di riconoscibilità pubblica non riesca ancora a sfondare il muro del 50%, però, McCarthy comincia ad avere un impatto decisivo sulle scelte degli elettori. Alle elezioni del 1950 ha combattuto praticamente da solo contro le candidature democratiche di Tydings e Lucas in Maryland ed Illinois. E i candidati repubblicani, da lui scelti, hanno vinto nettamente.

Per tutto il 1951, McCarthy continua la sua battaglia per identificare comunisti e spie sovietiche nel governo. Il suo bersaglio preferito, anche se indiretto, è il segretario di stato Dean Acheson, che rappresenta l’incarnazione perfetta del suo opposto. Laureato a Yale, protetto di Felix Frankfurter e Louis Brandeis, elegante e raffinato, con un accento dell’est che molti scambiano per inglese, Acheson disprezza profondamente McCarthy, mentre il senatore del Wisconsin spesso si limita a prenderlo in giro (lo chiama“il decano rosso dell’alta moda”) con il suo humour greve e popolano.

In autunno, McCarthy riesce a bloccare la nomina di Jessup come ambasciatore alle Nazioni Unite, convincendo il democratico Harold Stassen a schierarsi dalla sua parte nell’attribuire a Jessup la parziale responsabilità del fallimento della strategia americana in Cina. Questo inaspettato successo lo convince a mirare ancora più in alto, verso la figura apparentemente intoccabile di Marshall. La tesi di McCarthy è che la lunga carriera di Marshall sia costellata da gravissimi errori di giudizio, incompetenza e negligenza, oltre che da una continua e servile sottomissione agli interessi dell’Unione Sovietica. Il cahier de doléance di McCarthy è pesante: dal ruolo di Marshall a Pearl Harbor al suo sostegno alle concessioni ottenute da Stalin a Yalta; dai fallimenti come segretario di stato nell’indagare sulla presenza di spie comuniste nell’Onu alla fretta di aprire un “secondo fronte” durante la guerra; dal tentativo di far ottenenere gli aiuti economici del “piano Marshall” anche all’Urss e ai suoi alleati alla decisione di tagliare ogni forma di appoggio alla Cina nazionalista. “Se Marshall fosse soltanto stupido – sostiene McCarthy di fronte agli attoniti colleghi del Senato – la legge delle probabilità imporrebbe che almeno qualcuna delle sue decisioni sia stata presa nell’interesse degli Stati Uniti”. Marshall, insomma, non sarebbe soltanto l’ennesimo liberal ingenuo e senza attributi, ma avrebbe fatto parte di “una cospirazione così immensa da sminuire qualsiasi impresa del genere nella storia dell’umanità”.

La reazione della stampa, dei democratici, dei moderati repubblicani e perfino di qualche “taftiano” in ordine sparso è violentissima. Il Capital Times di Evjue definisce il discorso “una maratona denigratoria” (smear marathon rende molto meglio l’idea), il senatore Leverett Saltonstall dice di aver provato un “nauseabondo disgusto”, il settimanale Collier scrive che McCarthy ha raggiunto “vette inesplorate di irresponsabilità” e si appella alla leadership repubblicana perché si dissoci dalle accuse lanciate dal senatore del Wisconsin. Ancora una volta, spiega lo storico Arthur Herman, McCarthy “affronta una questione ragionevole con irragionevolezza”. Spinto da un irrefrenabile impulso demagogico, oltre che dalla convinzione assoluta di essere dalla parte della ragione, McCarthy riesce a sconcertare perfino un anticomunista tutto d’un pezzo come Taft, che comincia a considerarlo troppo testardo e imprudente per essere davvero utile alla causa che sostiene. Ma i vertici del partito repubblicano sanno anche che non possono permettersi di essere troppo schizzinosi nei confronti di McCarthy. Il 1952, anno di elezioni presidenziali, è appena iniziato. E per la prima volta dal 1924 il GOP vede distintamente la possibilità di ritornare alla Casa Bianca. Sarà una lunga, lunghissima campagna elettorale.

(3/continua)

15 settembre 2005

Leggi il quarto capitolo
 

La vera storia
di Joe McCarthy:

Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4



I blog di Ideazione


The Right Nation
Walking Class
1972
Le guerre civili
I love America
Regime Change
Krillix
Mattinale
JimMomo





Network
italiano


















Network
internazionale