La vera storia di Joe McCarthy.
Capitolo 2. La prima mossa di McCarthy
di Andrea Mancia
da
Il Foglio, 5 febbraio 2005
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Per essere un “do-nothing Congress”, come lo definisce Harry Truman poco
dopo la vittoria alle presidenziali del 1948, l’80° Congresso a
maggioranza repubblicana sembra un vulcano in eruzione. Il GOP approva
il primo “balanced budget” dal 1930, riduce le tasse di quasi 5 miliardi
di dollari (una sessantina di oggi), toglie otto milioni di cittadini
(poveri) dalle fauci del fisco, riduce il potere dei sindacati con il
Taft-Harley Act, blocca l’adesione obbligatoria al sistema di
assicurazione sanitaria nazionale, abolisce il controllo dei prezzi in
vigore dall’inizio della guerra, approva il National Security Act con
cui viene creata la CIA e si fondono esercito e marina nel dipartimento
della Difesa.
Ma il
Congresso a guida repubblicana non si limita all’attività legislativa. E
inizia a indagare sugli episodi di corruzione e sulle infiltrazioni
comuniste all’interno dell’Esecutivo. Nel 1947, dopo lo scandalo
Amerasia, il capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover, ha ormai perso ogni fiducia
nella possibilità di convincere l’amministrazione democratica ad
affrontare seriamente il problema dello spionaggio sovietico e decide di
coinvolgere il Congresso, portando il proprio caso di fronte all’House
Un-American Activities Committee (HUAC). A chi gli fa notare che negli
Stati Uniti gli iscritti al partito comunista non raggiungono neppure
l’1% della popolazione, Hoover risponde che si tratta di una percentuale
analoga a quella registrata in Russia prima della rivoluzione
bolscevica. E’ il primo colpo di cannone di una furibonda battaglia
politica.
Al Senato,
il Permanent Subcommittee on Investigations (PSI), sotto la presidenza
di Homer Ferguson, sta seguendo una pista simile. Tra il luglio e
l’agosto del 1948 vengono ascoltate le testimonianze di Elizabeth
Bentley, Luis Budenz e Whittaker Chambers. Le rivelazioni della Bentley
non sono una novità assoluta, ma lasciano a bocca aperta i membri del
PSI. Corriere dello spionaggio sovietico fin dal 1941, la Bentley ha
raccolto informazioni “classificate” da esponenti dei maggiori
dipartimenti del potere esecutivo, entrando in contatto con decine di
funzionari governativi al soldo di Mosca. Un agente sovietico di cui non
conosce la vera identità, dice, ha diretto la strategia statunitense in
Cina, con l’obiettivo di appoggiare gli alleati dell’Unione Sovietica.
Più tardi si scoprirà che questo personaggio risponde al nome di
Lauchlin Currie, fuggito all’estero dopo la sua testimonianza di fronte
alla HUAC. Si tratta della stessa spia che ha informato i sovietici
dell’esistenza del Venona Project. Di William Remington, del
Dipartimento del Commercio, la Bentley conosce nome e cognome e sa che è
stato trasferito ad un’agenzia che si occupa di regolare l’export con
l’Urss e i suoi satelliti.
Luis Budenz,
ex direttore del Daily Worker, accusa invece direttamente la “quinta
colonna” sovietica del partito comunista statunitense e si dice convinto
che, includendo anche gli impiegati di basso livello, almeno un migliaio
di comunisti lavorino (in incognito) per istituzioni governative. Budenz
avvisa la commissione che chiunque si fosse degnato di smascherare il
network di spie sarebbe stato denunciato come un “red baiter” (un
persecutore dei rossi). “Ma come posso evitare di essere considerato
tale – dice durante la sua testimonianza – se voglio difendere l’America
dai suoi nemici?”. Tentare di rispondere a questa insidiosa domanda
sarebbe stata la sfida impossibile di Whittaker Chambers.
Whittaker Chambers, il testimone
La vicenda umana, politica e giudiziaria di Whittaker Chambers è
descritta magistralmente dalla polemista conservatrice Ann Coulter in
“Treason: Liberal Treachery from the Cold War to the War on Terrorism”
(tradotto in Italia da Rizzoli nel 2004 con il titolo “Tradimento: come
la sinistra liberal sta distruggendo l’America”). Chambers decide di
rompere con il partito comunista nel 1938, dopo il patto
Molotov-Ribbentrop per la spartizione della Polonia. Un altro
ex-comunista, Walter Krivitsky, lo aveva costretto a rendersi conto
della realtà: “Il governo sovietico era un governo fascista e lo era
sempre stato”. In “Witness”, l’autobiografia pubblicata nel 1952,
Chambers scriverà di aver capito in quel momento che il destino del
mondo libero poteva essere deciso soltanto da una lotta tra comunisti ed
ex-comunisti, perché “nessun altro ha penetrato così a fondo la piena
natura del male con cui il comunismo minaccia l’umanità”. Chambers
decide di parlare.
Nel 1939 un
suo amico gli organizza un incontro privato con Adolf Berle, il vice
segretario di stato di Roosevelt. Il resoconto è dettagliato e ricco di
nomi e cognomi: tra le decine di spie sovietiche che lavorano
nell’amministrazione democratica, spiccano un funzionario di alto
livello del Dipartimento di stato, Alger Hiss, e suo fratello Donald.
Berle è sconvolto. E il giorno dopo riferisce a Roosevelt il contenuto
del colloquio con Chambers, sottolineando la posizione di grande
responsabilità occupata da Hiss. FDR gli ride in faccia e lo manda a
quel paese (adoperando parole più esplicite). Non soltanto il presidente
non prende alcun provvedimento, ma promuove Alger Hiss al ruolo di suo
consigliere di fiducia, che avrebbe occupato anche durante i disastrosi
(per l’Occidente) negoziati di Yalta.
Berle prova
allora a coinvolgere il sottosegretario del Tesoro, Dean Acheson, che
però afferma di conoscere i due fratelli Hiss fin dall’infanzia e di
fidarsi completamente di loro. Quando Acheson diventa vice segretario di
stato, la sua prima mossa è quella di assumere Donald Hiss come proprio
assistente personale. Per quasi dieci anni, i fratelli Hiss continuano a
rivestire un ruolo centrale nella politica estera prima
dell’amministrazione Roosevelt e poi in quella guidata da Truman.
“Cercavamo tutti di non lasciarci scappare nulla che non dovesse essere
detto – avrebbe poi raccontato Berle – ma c’erano fughe di notizie
piuttosto frequenti ogni volta che qualcosa passava per l’ufficio di
Alger Hiss”.
Chambers
deve aspettare fino al 1948 per essere interrogato nuovamente sulla
penetrazione delle spie sovietiche nel governo degli Stati Uniti, quando
viene chiamato a testimoniare di fronte alla HUAC. A differenza di
Roosevelt, il Congresso si dimostra almeno interessato all’argomento e
chiama direttamente in causa Alger Hiss. L’affascinante membro
dell’Harvard Club smentisce sdegnatamente ogni accusa e addirittura nega
di aver mai conosciuto Chambers.
Alger Hiss e l’attrazione fatale tra liberal e
comunisti
Come un sol uomo, la stampa liberal si schiera dalla parte di Hiss.
Chambers viene dipinto come un improvvisato giornalista (lavora al
settimanale “Time”) dai denti guasti; i deputati della HUAC sono “poco
intelligenti, rozzi e sgrammaticati”; mentre ogni performance del
funzionario governativo viene descritta con un’enfasi degna delle
migliori imprese olimpiche. La commissione della Camera sembra sull’orlo
del collasso nervoso, pronta a cedere sotto i colpi della massiccia
campagna di stampa. Ma nella HUAC, scriverà poi Chambers, c’era un uomo
che possedeva “un orecchio interno per la campana della verità”. Il suo
nome è Richard Nixon.
Il giovane deputato della California, con ostinazione, riesce a
prolungare le udienze della commissione a porte chiuse. E mentre Truman
denuncia la caccia anticomunista come una “manovra diversiva” dei
repubblicani, Chambers inizia a convincere i membri della commissione
che le sue testimonianze non sono affatto campate in aria. Lo scontro
politico raggiunge livelli altissimi e l’intero establishment liberal si
getta di peso nella mischia: Felix Frankfurter e Adlai Stevenson
testimoniano a favore dell’integrità assoluta di Hiss; Eleanor Roosevelt
lo difende a spada tratta; il Dipartimento di Giustizia di Truman chiede
all’FBI informazioni su una presunta malattia mentale di Chambers e lo
indaga per falsa testimonianza; la pressione dei media costringe la HUAC
a rinunciare alle udienze a porte chiuse. Il “testimone” barcolla. E
scongiura Nixon di impedire alla stampa di partecipare agli
interrogatori futuri. Ma Nixon convince Chambers che l’unica possibilità
rimasta è quella di affidarsi all’istinto dell’opinione pubblica.
“Il
Dipartimento di Giustizia è pronto a procedere contro di lei per salvare
Hiss – dice Nixon a Chambers – Hanno intenzione di incriminarla subito.
L’unico modo per far cambiare loro idea è lasciare che sia il pubblico a
giudicare autonomamente chi dice il vero. Questa è la sua sola chance”.
Nel settembre del ’48, dopo le dirompenti testimonianze di Chambers di
fronte alla HUAC di Nixon e al PSI del Senato, un sondaggio rivela che 4
americani su 5 appoggiano le indagini anti-comuniste del Congresso. Come
scrive la Coulter, “il dato riguardava anche il 71 per cento dei
democratici intervistati ma lo zero per cento dei giornalisti”.
La tracotanza dell’aristocrazia liberal si trasforma in panico quando,
dopo un durissimo scontro durante la trasmissione radiofonica “Meet the
Press”, la sfida tra Chambers e Hiss si trasferisce nelle aule dei
tribunali. I legali di Hiss tentano di dimostrare che Chambers aveva
avuto una relazione omosessuale con il fratello (ormai scomparso) e che
il vero motivo delle sue accuse debba essere rintracciato nel suo
“impulso subconscio di ricongiungersi al fratello nella morte”.
Chambers, che fino a quel momento aveva cercato di limitare i danni
causati all’ex-amico, passa finalmente al contrattacco e tira fuori una
serie interminabile di documenti governativi riservati che ha ricevuto
prima del ’39 da Hiss, tra cui i celebri “documenti della zucca”
nascosti nella sua fattoria del Maryland. Le prove, schiaccianti,
forniscono la certezza definitiva sull’esistenza di una delle più estese
reti di spionaggio della storia statunitense. Ma non per tutti. Giornali
come il New York Times, il Washington Post e The Nation, infatti,
avrebbero continuato a sostenere l’innocenza di Alger Hiss per quasi
mezzo secolo. Hiss, da parte sua, riesce a sfuggire all’accusa di
spionaggio grazie allo scadere dei termini di prescrizione, ma nel
gennaio del 1950 viene condannato a 5 anni di carcere per falsa
testimonianza (per aver negato sotto giuramento di essere una spia).
Dopo aver scontato la breve condanna diventa, come scrive Allen
Weinstein nel suo libro “Perjury”, “un’istituzione permanente nel giro
delle conferenze universitarie” oltre che ospite di riguardo nei party
dell’Upper West Side di Manhattan.
Ancora nel
1992, il Washington Post scrive che non c’è “alcuna prova” che Hiss
fosse un agente sovietico. Nel 1994, il New York Times afferma che “il
caso Hiss rimane ancora dubbio”. Nel 1995, i messaggi intercettati dal
Venona Project vengono resi pubblici e dimostrano una volta per tutte
che Alger Hiss era una spia. Nel 1996, il NYT continua a descriverlo
come “uno dei grandi misteri della guerra fredda”. In realtà, l’unico
mistero rimane il fatto che il New York Times continui ad essere
considerato uno dei giornali più autorevoli del pianeta.
Arriva Tail-Gunner Joe
Già in incubazione da qualche anno, la Guerra Fredda si scalda
nell’inverno tra il 1949 e il 1950, con la creazione della repubblica
“democratica” tedesca e la fuga dei nazionalisti cinesi a Formosa,
mentre i comunisti di Mao si insediano a Pechino. L’11 gennaio 1950,
mentre negli Stati Uniti infuria il dibattito sul riconoscimento della
repubblica popolare cinese, il leader repubblicano Robert Taft pronuncia
un durissimo discorso di politica estera in cui accusa il Dipartimento
di stato di essere guidato da un “gruppo di estrema sinistra che si è
voluto sbarazzare di Chiang Kai-shek per consegnare la Cina ai
comunisti”. Due settimane dopo, Alger Hiss è condannato a cinque anni di
carcere, al termine di un processo che ha evidenziato l’esistenza di
cellule di spionaggio comunista nel cuore delle istituzioni di
Washington e, nella migliore delle ipotesi, la lentezza del governo nel
reagire a questo stato di cose.
Interrogato dai cronisti sul caso Hiss, Dean Acheson parla di “tragedia”
e giura fedeltà eterna all’amico. A Capitol Hill scoppia una rivolta
contro l’amministrazione Truman. Nixon definisce la vicenda
“disgustosa”. Un suo collega dell’HUAC, Karl Mundt, chiede l’apertura di
un’inchiesta sulla persistente influenza di Hiss negli ambienti del
Dipartimento di stato. Joe McCarthy prende la parola al Senato per
chiedere ad Acheson se abbia intenzione di proteggere anche gli altri
comunisti stipendiati dal governo. Se Nixon è ormai il “red hunter”
ufficiale della Camera, McCarthy non ha intenzione di farsi rubare
questo ruolo al Senato.
L’occasione
arriva il 9 gennaio a Wheeling, in West Virginia, con uno dei discorsi
più citati (e meno letti) della storia statunitense contemporanea. In
occasione dell’anniversario della nascita di Abraham Lincoln, una
ricorrenza tradizionale per la base elettorale repubblicana, McCarthy
deve intrattenere la platea del Republican Women’s Club locale e per
scrivere il discorso si fa aiutare da due giornalisti del Washington
Times-Herald, Ed Nellor e Jim Waters. Come è perché Tail-Gunner Joe
abbia scelto proprio questo momento per dare il via alla sua crociata
anti-comunista resta un mistero. Qualche storico attribuisce la
responsabilità a Nellor, che da qualche giorno era entrato in possesso
di una lista di sospetti comunisti impiegati al Dipartimento di stato.
Qualcun altro identifica la fonte primaria delle informazioni di
McCarthy con un ex membro dello staff della Casa Bianca, Robert Lee; con
il segretario della Marina, James Forrestal; con il rettore della School
of Foreign Service, Edmund Walsh; o con un non meglio precisato rapporto
dell’FBI di J. Edgar Hoover.
Comunque sia
andata, resta il fatto che già da qualche anno McCarthy, come del resto
la maggioranza dei politici repubblicani, aveva fatto dell’anticomunismo
una delle sue armi propagandistiche predilette. E il 9 gennaio del 1950
- dopo la caduta della Cina, la condanna di Alger Hiss e (appena una
settimana prima) l’arresto di Klaus Fuchs per l’accusa di spionaggio
atomico - il giovane senatore del Wisconsin si sente pronto per entrare
nella storia.
Wheeling, West Virginia
Seguendo il canovaccio scritto da Nellor e Waters, ma parlando spesso a
braccio, McCarthy scuote la platea con un discorso poderoso ed efficace.
Il senatore spiega come la fine della seconda guerra mondiale abbia
lasciato gli americani pieni di speranza per un futuro di pace.
Un’aspirazione tradita dalla guerra fredda e dall’espansione della
dittatura comunista, che ormai opprime “800 milioni di persone in tutto
il mondo” sotto gli occhi impotenti degli Stati Uniti. Una “impotenza”,
afferma McCarthy, che non ha niente a che vedere con la forza ideologica
o militare dell’Unione Sovietica, ma piuttosto con le “azioni traditrici
di persone che sono trattate meglio di chiunque altro dal sistema
americano [...] che hanno le case più lussuose, la migliore educazione e
i mestieri più prestigiosi che il governo può offrire”. L’America,
secondo McCarthy, è tradita da “uomini giovani e intelligenti nati con
il cucchiaio d’argento in bocca”, diventati gli alleati segreti
dell’Unione Sovietica. Alger Hiss o John Stewart Service sono soltanto
due esempi tra i tanti. “Non ho il tempo – dice il senatore – di
nominare tutti gli uomini del Dipartimento di stato accusati di essere
esponenti attivi del partito comunista o spie. Ma ho tra le mani una
lista di 205 nomi di cui il segretario di stato è perfettamente a
conoscenza. Malgrado ciò, continuano tutti a lavorare per il
Dipartimento di stato influenzando la politica estera del nostro paese”.
“That was
news”, commento lo storico Arthur Herman. E infatti, dopo qualche
giorno, la notizia rimbalza sulle prime pagine di tutti i quotidiani
statunitensi. I giornalisti vogliono sapere la provenienza della lista
di McCarthy, ma il senatore confonde le acque (per esempio parlando di
57 nomi invece che di 205) e si prepara ad attaccare il bersaglio
grosso: la Casa Bianca. Ai cronisti che lo assediano prima di un comizio
a Reno, in Nevada, comunica di aver scritto un telegramma a Truman in
cui chiede spiegazioni al presidente. Truman gli risponde con disprezzo.
A Reno,
McCarthy inizia a fare i primi nomi, quelli di John Stewart Service
(esperto di Cina e consigliere dell’amministrazione per il sud-est
asiatico), Mary Jane Keeney (impiegata della Federal Economic
Administration), Gustavo Duran (dirigente delle Nazioni Unite) e Harlow
Shapley (funzionario dell’Unesco). Le prove a loro carico sono
schiaccianti. L’opinione pubblica inizia a comprendere l’enormità del
fenomeno e a stringersi intorno al senatore del Wisconsin. E i primi
editoriali ostili cominiciano a spuntare tra le colonne dei giornali.
Il 13
febbraio McCarthy arriva a Las Vegas per un altro comizio. Nello stesso
giorno, il Dipartimento di stato organizza una conferenza stampa per
smentire categoricamente tutte le accuse del senatore. Il responsabile
della sicurezza per il Dipartimento, John Peurifoy, lo sfida
apertamente. “Dal 1947 – dice – abbiamo indagato su oltre 16mila
funzionari; non è stata trovata neppure una singola spia o un singolo
membro del partito comunista”. Ma in privato, l’amministrazione inizia a
preoccuparsi seriamente sulla provenienza delle informazioni di cui
McCarthy è in possesso. Un altro “caso Hiss” avrebbe messo
definitivamente in ginocchio Truman e l’intero establishment liberal.
Quello che i democratici non sanno (e forse neppure McCarthy) è che dal
febbraio del 1943, negli anonimi uffici di un ex-liceo femminile della
Virginia, Arlington Hall, il controspionaggio statunitense stava
lavorando alla decrittazione dei cablogrammi in codice spediti dagli
agenti sovietici in territorio americano verso Mosca. E che qualche
decina di spie, inserita nei meandri del potere esecutivo, è già stata
identificata.
Le spie sovietiche al Dipartimento di stato
Grazie all’accuratezza delle proprie fonti, o ad una fortuna sfacciata,
i quattro nomi svelati da McCarthy a Reno si rivelano essere assai meno
“innocenti” di quanto Peurifoy e i democratici sostengono. Gustavo Duran
non è solo un comunista, ma una figura centrale delle purghe staliniste
di anarchici e trozkysti durante la guerra civile spagnola. Ufficiale
della feroce polizia segreta comunista in Spagna, responsabile di
omicidi a sangue freddo ed esecuzioni di massa, quando Franco prende il
potere scappa negli Stati Uniti con l’aiuto di Ernest Hemingway e
dell’ambasciatore americano a Cuba, Spruille Braden, che nel 1946 lo
raccomanda per un posto di prestigio all’Onu. Tra i giornalisti che
difendono Duran con forza dalle accuse di McCarthy, c’è Michael Straight
di New Republic. Quello che Straight non dice ai suoi lettori, però, è
che egli stesso è una spia sovietica, reclutato anni prima a Cambridge
insieme a Anthony Blunt e Kim Philby.
Philip e
Mary Jane Keeney, comunisti di professione e librai per hobby, hanno una
storia singolare. Philip perde il lavoro all’università negli anni
Quaranta a causa delle sue attività politiche radicali. Durante la
guerra, però, riesce a farsi assumere all’OSS, mentre Mary Jane si
sistema al Bureau of Economic Warfare. Entrambi, pochi mesi prima, sono
stati assoldati dai servizi segreti militari sovietici. Prima della fine
del conflitto, passano sotto l’ala protettrice del KGB. Nel 1946, Mary
Jane entra al Dipartimento di stato. Nel 1947 l’FBI scopre i suoi
contatti con il KGB. I due vengono licenziati, ma Mary Jane viene
assunta pochi mesi dopo dalla delegazione statunitense all’Onu, con
l’aiuto di Alger Hiss. Fino a quando McCarthy non fa il suo nome e prova
definitivamente la sua colpevolezza, Mary Jane Keeney resta sul libro
paga dell’amministrazione democratica. Oltre che, naturalmente, su
quello del KGB. Harlow Shapley, dei quattro, è senza dubbio il meno
colpevole. Astronomo con una spiccata predilezione per lo stalinismo,
Shapley lavora all’Unesco (e riceve il suo stipendio dal Dipartimento di
stato), malgrado sia iscritto ad almeno una ventina di organizzazioni
radicali vicine al partito comunista, di cui otto messe fuorilegge.
La vera star
del gruppo, invece, è John Stewart Service. Arrestato nel 1945 dopo lo
scandalo-Amerasia, Service ha tranquillamente mantenuto il suo posto
nell’amministazione dopo un breve soggiorno in carcere. Figlio di un
missionario, è senza dubbio uno degli esperti più accreditati di
politica cinese. Tanto accreditato da diventare il primo civile
americano ad incontrare ufficialmente Mao Tse-tung. Convertito alla
causa maoista, fa di tutto per boicottare il governo nazionalista di
Chiang e passa informazioni segrete a Philip Jaffee ed Andrew Roth,
rispettivamente spie comuniste di Unione Sovietica e Cina. Dopo il “caso
Amerasia”, Lauchlin Currie, il referente di Mosca alla Casa Bianca per
la politica nel sud-est asiatico, lo protegge dalla “persecuzione
anticomunista” e riesce a farlo tornare al Dipartimento di stato. Prima
che McCarthy faccia pubblicamente il suo nome, Service trova il tempo di
collaborare strettamente con Solomon Adler del Tesoro, un altro agente
sovietico, e Chi Ch’ao Ting, la “talpa” maoista all’interno del governo
nazionalista cinese.
Fuochi d’artificio in Senato
Nel tardo pomeriggio del 20 febbraio 1950, McCarthy entra al Senato per
pronunciare un discorso in cui denuncia formalmente le lacune del
programma di sicurezza del Dipartimento di stato. Si tratta di un atto
d’accusa durissimo nei confronti dell’amministrazione Truman, più che
agli 81 funzionari federali (incluso uno speechwriter della Casa Bianca)
che vengono presi di mira da Tail-Gunner Joe. Sono sei ore di battaglia,
sotto un fuoco incrociato di applausi ed interruzioni, ma il messaggio
di McCarthy arriva forte e chiaro: il governo ha permesso, e permette,
che decine di persone che rappresentano un rischio per la sicurezza
nazionale continuino a lavorare nel Dipartimento di stato.
Un paio di
volte McCarthy esagera la portata delle informazioni di cui è in
possesso. Un “sospetto comunista” diventa un “membro del partito
comunista”, un “amico di qualcuno sospettato di essere comunista”
diventa “un caro amico di un noto comunista”; ma il più delle volte
McCarthy si spinge verso i confini del bluff soltanto per esercitare una
maggiore attrazione mediatica, per ottenere il massimo impatto possibile
sull’opinione pubblica. Si tratta di un metodo che il senatore del
Wisconsin, negli anni successivi, avrebbe imparato ad adoperare a
vantaggio proprio e della causa anticomunista da lui sostenuta. Sul
momento, però, queste imprecisioni e forzature lasciano agli avversari
dei repubblicani lo spazio di manovra necessario per reagire alla
minaccia politica, potenzialmente devastante, che si sta profilando
all’orizzonte. Il 21 febbraio la leadership del Senato decide che le
accuse di McCarthy verranno esaminate da un sottocomitato creato ad hoc
all’interno del Foreign Relations Committee, controllato dai
democratici. A presiederlo viene chiamato Millard Tydings, un senatore
del Maryland che ha già avuto modo di incrociare la propria spada con
Tail-Gunner Joe.
(2/continua)
15 settembre 2005
Leggi il terzo capitolo
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