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[29 feb 08]

Suite Habana, abita qui la malinconia

Ogni tanto, quando i nostri mass media decidono che è giunto il momento, Cuba torna di moda. E’ successo nei giorni scorsi con le dimissioni di Fidel Castro e “l’elezione” del fratello Raul. Come sempre ci si è divisi tra filocastristi e anticastristi, difendendo da un lato l’unicità di una rivoluzione socialista ferrea e longeva, e dall’altro contestando l’innegabile e assoluta mancanza di democrazia e libertà nell’isola caraibica. Ma Cuba è sempre lì, adagiata al largo della Florida. Non è una novella Atlantide che scompare e riappare secondo le preferenze dell’intellighentsia occidentale. E a Cuba vivono dieci milioni di persone, schiacciate da una povertà sempre più evidente e dal peso di una dittatura asfittica. Ci sono pochi modi per rendersi conto della vera e quotidiana realtà cubana.Uno di questi è il cinema, strumento molto apprezzato, per ovvi motivi propagandistici, dalle dittature di ogni colore, e che quindi gode di un certo (seppur relativo) grado di libertà.

Capita, dunque, che anche il ferreo regime castrista si lasci scappare un film particolarmente esemplicativo della realtà cubana. E’ un film di qualche anno fa (2003), una via di mezzo tra documentario e cinema neorealista. La “trama” è semplice: una giornata per le vie di una città bella e struggente, alle prese con miseria, speranza e rassegnazione. Non ci sono attori né copioni; i protagonisti mostrano alle telecamere solo quello che fanno ogni giorno, senza invenzioni né artifici cinematografici. Conosciamo quindi Francisquito, bambino affetto dalla sindrome di Down, e suo padre Francisco, ex architetto che è diventato muratore, allorquando, rimasto vedovo, ha dovuto occuparsi del figlio. Oppure seguiamo la doppia vita di un giovane dipendente ospedaliero che di notte si trasforma in una luccicante (ma alquanto malinconica) drag queen. E ancora la triste felicità di Juan Carlos, vincitore del grottesco sorteggio che ogni anno permette a qualche centinaio di cubani di lasciare l’isola con destinazione Miami, a patto che non tornino più indietro. Ma il personaggio più emblematico di tutto il film è Amanda, settantanovenne triste che vende noccioline americane a pochi pesos. E’ l’unico personaggio che, nelle didascalie che chiudono il film, non ha un sogno, o meglio non ce l’ha più. E’ il simbolo di una Cuba rassegnata, defraudata da ogni speranza e prospettiva futura. Una Cuba vecchia e vicina alla morte che non vede spiragli, né vie d’uscita.

Qualcuno a questo punto si chiederà come ha fatto il regista Fernando Perez a girare (per giunta sotto il patrocinio dell’Istituto cubano di arte cinematografica) un film così realista, a tratti critico e straziante. Ebbene, il film è stato presentato al mondo come esaltazione del carattere cubano, dell’arte di apprezzare le piccole cose, di accontentarsi e di lottare giorno dopo giorno per vivere. E il regime ci è cascato, se è vero come è vero che la pellicola ha girato i festival di mezzo mondo e ha vinto addirittura undici Coral al festival del cinema dell’Avana. E i cubani? Come hanno reagito a questo struggente affresco di una realtà che purtroppo conoscono benissimo? Semplicemente non hanno reagito, perché a Cuba Suite Habana non è stato mai proiettato, se non in occasioni ufficiali alla presenza di pochi notabili del regime. Nonostante la prorompente libertà del mezzo cinematografico, quello castrista è pur sempre un regime dittatoriale, e la censura vigila e colpisce. Ma almeno il mondo occidentale ha potuto rendersi conto di come vivono i cubani, ha visto le case fatiscenti, la mancanza persino dei servizi igienici più elementari. Suite Habana ci permette per una volta di non fidarci dei racconti entusiastici dei Gianni Minà o dei Diego Armando Maradona. Le immagini parlano, anzi urlano, senza spirito apologetico né, dall’altro lato, anticastrismo a prescindere.

E la tristezza che alla fine assale lo spettatore (almeno quello sinceramente democratico e non ideologico) è frutto, oltre che delle eloquentissime immagini, anche di una colonna sonora trascinante e drammatica. Che sia un brano di musica classica o una salsa cubana, il risultato è sempre quello: l’esaltazione del tratto malinconico dell’indole cubana. Una malinconia che non stupisce, che è frutto della storia e che proprio nella storia (futura) cerca una sbocco. In fondo, i cubani la democrazia non l’hanno mai conosciuta. E Suite Habana è stato (e dovrà ancora essere) un monito per tutti noi occidentali: forse è ora di fargliela conoscere.

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