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[18 mar 08] In questi anni ce l’hanno spiegato così: inutile ricorrere alla politica del muro contro muro nei confronti di Pechino. Bisogna puntare all’inclusione. I profeti della Realpolitik spiegavano che è impossibile introdurre in un sistema chiuso elementi di capitalismo, senza innescare l’effetto domino anche in ambiti diversi dall’economia. Una società in cui il benessere aumenta, si diffonde, raggiunge maggiori fasce della popolazione, dovrà per forza aumentare i suoi standard democratici, è un meccanismo automatico. E allora via libera alla cooperazione commerciale, tappeti rossi ai magnati dell’Impero celeste che venivano a investire da noi, via agli aerei di Stato zeppi di ministri e imprenditori che si levavano in volo alla volta del nuovo, enorme mercato. E allora abbiamo chiuso un occhio sul dumping sistematico operato dalle aziende cinesi, sullo sfruttamento del lavoro minorile, sulla contraffazione commerciale, e altre pratiche che dovrebbero farci inorridire. Nell’attesa che la Cina, saziata dal nuovo benessere, cominciasse a somigliare un po’ più a noi. E invece la sensazione che si ha in questi giorni, è che stia succedendo esattamente il contrario. Che questo interscambio commerciale, questo intrecciarsi di interessi economici, stia rendendo il mondo democratico di cui ci fregiamo di far parte, un po’ più simile alla Cina. O, quantomeno, irrimediabilmente connivente con i crimini del regime comunista-capitalista di Hu Jintao.
L’Europa e gli Stati Uniti si ritrovano ora in mano armi spuntate. Proprio ieri Federico Rampini ricordava su Repubblica, quanto le nostre economie non possano fare più a meno della Cina. Le nostre aziende elettroniche e high-tech hanno smesso di produrre elementi che sono diventati monopolio dei produttori cinesi ed ora non possono farne a meno; gli Stati Uniti hanno aperto le porte a investitori cinesi per risollevare la crisi del loro sistema bancario; per non parlare delle tante aziende che hanno delocalizzato la produzione in Cina. Per questo Hu Jintao sa di non correre grossi pericoli, che l’Occidente non può più fare a meno del Celeste impero e del suo mercato e non butterà certo tutto all’aria per difendere una popolazione remota, per quanto suggestiva possa essere. I primi segnali inquietanti, che abbiamo accolto con distratta indignazione, li abbiamo avuti nel dicembre scorso, in occasione della visita ufficiale del Dalai Lama in Europa. Accolto alla Casa Bianca da Bush e insignito con la Medaglia d’oro del Congresso Usa, il leader spirituale dei tibetani aveva ricevuto un’accoglienza spettrale nel nostro Continente.
A parte la cancelliera Merkel, i leader europei gli avevano riservato quell’imbarazzo infastidito che accoglie chi si presenta a un pranzo di matrimonio senza essere stato invitato. Prodi e D’Alema, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, si ricordarono di impegni improrogabili e fu allestita in tutta fretta una conferenza stampa a Montecitorio. Maestro del cerchiobottismo fu Bertinotti, che dichiarò: “Siamo amici della Cina ma difendiamo il Tibet”. Degno dei migliori “ma anche” veltroniani. Persino il Vaticano, tradizionalmente attento ai buoni rapporti interreligiosi, non aprì le porte al Dalai Lama, né domenica scorsa nell’Angelus il Papa ha speso una parola di condanna per la repressione in corso in Tibet. Certamente la Chiesa deve salvaguardare l’incolumità dei preti cattolici in Cina, ma è una Realpolitik che facciamo fatica ad accettare.
Insomma, l’Occidente ha le mani legate. L’Onu e l’Unione europea sono ancora latitanti, Condoleezza Rice ha rivolto un debole appello al governo cinese perché “apra un dialogo con il Dalai Lama”. Questo mentre in Tibet, a poche ore dallo scadere dell’ultimatum cinese, continuano le repressioni, operate sotto un regime di censura di immagini e dichiarazioni che appare impossibile nell’era di internet. L’unica arma, non certo letale, che abbiamo ancora in mano è il boicottaggio dei Giochi olimpici della prossima estate. Non è un controsenso boicottarli dopo averli assegnati alla Cina: era stata un’apertura di credito che il regime di Hu Jintao ha dimostrato di non meritare. E’ poco, molto poco, un danno in gran parte d’immagine (ma non solo) che sicuramente non salverà il popolo tibetano dalla pulizia etnica della polizia cinese. Ma almeno non ci recheremo a celebrare un antichissimo rito di pace e di lealtà in un Paese con le mani grondanti di sangue. E’ poco, ma è meglio che niente.
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