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COME TRAVAGLIO PERSE LA CLAQUE
Dopo l'attacco al presidente del Senato in tv, il giornalista viene criticato
anche da sinistra. Segno che il clima politico, forse, sta cambiando davvero.
di PAOLA LIBERACE

[13 mag 08] A leggere i titoli dei quotidiani sull’ennesimo caso di diffamazione giornalistica, scoppiato di fronte alle telecamere di Che tempo che fa, potrebbe sembrare di essere tornati a sei o sette anni fa; se non fosse per qualche piccolo, quasi impercettibile dettaglio, che rivela come la situazione per fortuna sia ormai molto cambiata. Le accuse di Marco Travaglio dirette al presidente del Senato, Renato Schifani, non sono una novità di questi giorni: le stesse insinuazioni erano già risuonate non solo nel libro scritto da Travaglio con Peter Gomez Se li conosci li eviti, ma prima ancora, nel 2002, nelle pagine di un articolo pubblicato da Giustolisi e Lillo su L’Espresso, che conteneva una ricostruzione dei presunti rapporti di Schifani e di La Loggia con la mafia, basata pressoché interamente sulle dichiarazioni rilasciate dai pentiti. Oggi come allora, il gioco è lo stesso: alla legittimazione del voto popolare si contrappone la delegittimazione motivata con “rivelazioni” delle quali la povera, ignara opinione pubblica sarebbe completamente all’oscuro. Il tutto per svelare al volgo l’illusione, per metterlo in guardia dall’errore nel quale è incorso accordando la sua fiducia ai rappresentanti che ha scelto, e al contempo per rivendicare al giornalista “scomodo” il ruolo di unico depositario della verità. Non è in fondo questo il suo compito? Sei anni fa, l’opinione pubblica, compatta, rispondeva di sì, e applaudiva.

Peccato che, da allora, un po’ di cose siano cambiate. A credere ciecamente alla indiscutibile attendibilità dei pentiti sono ormai in pochissimi, tra i quali evidentemente Travaglio, che continua a reputarle sufficienti per emettere giudizi senza appello e senza, peraltro, passare da alcun processo. Gli altri, specialmente dopo la sentenza definitiva del processo Andreotti nel 2004, hanno cominciato a riflettere sul fatto che le parole di uomini come gli “ex” mafiosi, non proprio così degni di considerazione - certo non più di un senatore a vita della Repubblica - siano state giudicate (e in un’aula di Cassazione, non nello studio di Santoro) prove insufficienti a emettere un verdetto di colpevolezza; oltre che sulla discutibilità generale del concetto di “concorso esterno” in associazione mafiosa, strana fattispecie di reato che può inchiodare chiunque per un saluto al momento sbagliato. Ancora, e più in generale, l’atmosfera che accolse la vittoria di Berlusconi nel 2001 è profondamente mutata, lasciando il posto a un clima, se non di collaborazione, almeno di riconoscimento reciproco tra gli avversari; e proprio dagli avversari politici di Schifani, in queste ore, arrivano gli attestati di solidarietà più sentiti e le condanne più ferme del comportamento di Travaglio.

Meglio tardi che mai: in fondo, dal famoso “editto bulgaro” del 2002, quando Berlusconi disse le stesse cose che oggi la Finocchiaro ripete, sono passati solo sei anni. Più che i primi cinque, tuttavia, ha potuto l’ultimo: nel quale la fondazione del Pd, con l’archiviazione dell’era prodiana, ha scritto la parola fine sulle alleanze a tutti i costi, motivate dal comune astio per il Cavaliere. Il che va ascritto a merito di Veltroni: proprio quel Veltroni che, in ultimo, si è scrollato di dosso anche Di Pietro, negandogli persino il ministero-ombra della Giustizia; proprio quel Veltroni al quale qualche parlamentare del Pdl oggi afferma improvvidamente di preferire D’Alema, che è andato a braccetto con Hezbollah e che vorrebbe riformare il calderone antiberlusconiano, anche a costo di riportare alle Camere i Caruso e i Pecoraro. Le mosse dei Santoro e dei Travaglio non sono che la spia di un più vasto fronte antiveltroniano, che brandisce la recente sconfitta come evidenza della necessità di tornare alla retorica della “resistenza” e della demonizzazione, per riguadagnare il consenso popolare. Ma Walter sa che indietro non si torna: ha compreso che l’ulivismo giustizialista e rancoroso avrebbe pagato ancora meno di quel “buonismo” cui tutti ascrivono il demerito dell’insuccesso, ed è ben felice, continuando sulla sua strada, di lasciarlo appannaggio di Di Pietro.

E così, soltanto Di Pietro resta, oggi, a reggere il gioco di un Travaglio tornato alla carica. Tutti gli altri, con sparutissime eccezioni, si sono affrettati a isolarlo, come del resto era accaduto già una decina di giorni prima con Santoro e con i suoi attacchi (mediati da Grillo) al presidente Napolitano. Diversamente da quanto accadde sei o sette anni fa, stavolta gli “accusati” non hanno sentito nemmeno il bisogno di intervenire per difendersi, o contrattaccare (la replica tardiva di Schifani è sembrata poco più che un atto dovuto); lo ha fatto per loro un coro bipartisan, dal direttore generale della Rai Cappon al presidente dei senatori del Pdl Gasparri, che ha visibilmente messo alle corde i free-rider della diffamazione spacciata per libertà d’informazione. Oggi sono dunque gli accusatori a finire sotto i riflettori, per giunta senza trucco, a doversi giustificare, a constatare stizziti l’assenza della claque osannante che un tempo li aveva fatti sentire intoccabili. Qualcosa è cambiato: solo che Travaglio, purtroppo per lui, non se n’è accorto.


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