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D'ALEMA VS VELTRONI, DUE PD A CONFRONTO
Continua sempre più serrato il dibattito interno al Partito Democratico. Da un lato l'ex ministro degli Esteri che preme per un ritorno ad un'ampia alleanza di centrosinistra, dall'altro il segretario che non intende fare passi indietro.
di ANTONIO FUNICIELLO

[07 mag 08] Sotto la spessa cenere dei fuocherelli di campo in cui si sono consumati gli scontri intestini del Partito democratico per eleggere capigruppo, vice capigruppo e tutto quello che c’è da eleggere, arde una brace che ha più direttamente a che fare con la politica. Il fuoco tenue, ma vivo, di una vera e propria dialettica tra posizioni e orientamenti sensibilmente diversi, non solo sulla guida del partito, ma anche sulla rotta da seguire in questi cinque anni di opposizione e, soprattutto, sull’identità culturale e il posizionamento strategico del Pd alle elezioni del 2013. Da una parte c’è il progetto di Walter Veltroni del Pd partito a vocazione maggioritaria, uscito sconfitto alle politiche di poco meno di un mese fa. Dall’altra l’idea di Massimo D’Alema di un Pd baricentro di un'alleanza elettorale di centrosinistra ampio, sul modello di quello prodiano.

Quest’ultima è stata abbozzata variamente da maggiorenti dalemiani, ma tematizzata in termini politici solo da Roberto Gualtieri, vicedirettore dell’Istituto Gramsci. In un articolo su Il Riformista del 30 aprile che, spogliato di un’imprudente perentorietà, spesso confutabile, ma di cui comunque si apprezza un certo pathos, Gualtieri delinea il profilo di un Pd assai diverso da quello ideato e messo su pista da Veltroni: più continentale e meno atlantista, più orgogliosamente in linea con la storia patria (Pci-Pds-Ds-Pd) e meno discontinuo, più socialdemocratico e meno, molto meno liberale. Il Pd di Gualtieri definisce se stesso in antitesi “all’impianto della proposta programmatica” veltroniana, contro “la visione neoliberale fondata sul dogma della separazione tra economia e politica”, a favore di una rifondazione “su un terreno non classista dei rapporti col mondo del lavoro”, contro una presunta “idea atomistica della società” e “una diffidenza di matrice movimentista per i partiti politici” e, infine, contro un’altrettanto presupposta “visione negativa dell'impianto parlamentare della nostra Costituzione”. Traducendo: non abbiamo nulla da imparare dal liberalismo; i nostri interlocutori “naturali” restino i sindacati, la Confindustria e non le piccole e medie imprese; si torni a un partito di iscritti e non di cittadini elettori; bando alle tentazioni presidenzialiste: il nostro dna è il parlamentarismo e da lì non si scappa. Se a questo si aggiunge l’ultima sortita di Vincenzo Visco con la scandalosa pubblicazione sul web dei redditi degli italiani, la cornice del nuovo partito dalemiano è bella che chiusa.

Veltroni, a fronte di un affondo di tal fatta, ha chiesto di anticipare il congresso del Pd, già previsto da statuto entro il secondo anniversario delle primarie (14 ottobre 2009). Dietro questa richiesta c’è l’esigenza di una nuova legittimazione popolare della sua leadership (e della sua premiership), nonché del suo progetto politico. Legame indissolubile, questo tra leadership e progetto, che ha rappresentato la vera novità della stagione veltroniana, nuova, vecchia o come altro la si voglia giudicare. Nel campo del centrosinistra non era accaduto mai nulla di simile. Il Pd di Veltroni ha ribaltato l’assunto vischiano del “pagare tutti, pagare meno” in “pagare meno, pagare tutti”, riconoscendo - fatto inedito a sinistra - la strutturale necessità di ridurre la pressione fiscale sui contribuenti leali per favorire la crescita del sistema-Paese. Il Pd di Veltroni ha operato, inoltre, una vera e propria rivoluzione copernicana nel concepire i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, tra salario e profitto: termini non solo di un fisiologico conflitto, ma anzitutto uniti dal destino comune del successo del fare impresa in cui sono inseriti. Il Pd di Veltroni ha, infine, tuonato in campagna elettorale contro la vergognosa retroattività degli studi di settore, affinché gli studi revisionati si applichino all’anno d’imposta nel quale sono stati revisionati e non prima. Si potrebbe andare avanti ancora, fino a specificare ulteriormente i contorni di un partito schiettamente liberal socialista e liberal democratico; nel quale, sul terreno fertile del comune denominatore “liberal”, le vecchie culture politiche riformiste si fecondano di nuovi significati e prospettive.

Per un partito veramente democratico, il congresso è per definizione il luogo deputato al confronto tra le due visioni di Pd oggi in campo: un confronto da giocare liberamente sul terreno della battaglia delle idee. Sarebbe un bene per tutti se D’Alema e i suoi decidessero di dismettere i panni dei “logoratori interni” e avessero il coraggio di sfidare Veltroni e il suo progetto scrivendo una mozione congressuale a lui alternativa, magari proprio partendo dalla precisa disamina di Gualtieri. Sarebbe un bene per loro, evidentemente, qualora vincessero il congresso; un bene per Veltroni se invece dovesse essere riconfermato senza insidiosi plebisciti, ma con una maggiorana interna ridotta eppure più solida. Ma soprattutto un bene per il Partito democratico, che finalmente conoscerebbe un battesimo politico degno di questo nome.


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