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COLLOQUI CINA-TIBET: LO SCETTICISMO E' D'OBBLIGO
La ripresa del dialogo fra cinesi e tibetani è un passo importante. Ma sono troppi gli elementi che fanno supporre che sia solo un’operazione di facciata.
di FEDERICO PUNZI

[06 mag 08] Anche questa volta, gli uni di fronte agli altri, sempre gli stessi uomini: Lodi Gyaltsen Gyarl e Kelsang Gyaltsen come emissari del Dalai Lama (rappresentanti dei tibetani rispettivamente presso gli Stati Uniti e presso l'Unione Europea) e due vice-ministri del governo di Pechino. Tra il 2002 e il 2007 si sono svolti ben sei colloqui informali come quello che ha avuto luogo domenica scorsa a Shenzhen, nel sud della Cina. Risultati? Zero. I tibetani lo sanno e non si fanno illusioni. Quella che agli occhi di alcuni occidentali può apparire come un’apertura, per loro è una triste e sterile routine. E oggi è forte il sospetto che Pechino voglia utilizzare la ripresa dei contatti solo per sottrarsi alla pressione della comunità internazionale in vista delle Olimpiadi. E’ Asianews a raccogliere tutto lo scetticismo della dissidenza tibetana. I colloqui, che sarebbero “il frutto del lavoro diplomatico internazionale”, in particolar modo del presidente francese Sarkozy, sostiene da Roma Geshe Gedun Tharchin, “sono stati utilizzati dalla propaganda comunista per raggiungere due scopi: calmare la comunità internazionale e dimostrare alla popolazione cinese che il leader buddista non mantiene la sua promessa di calmare la situazione in Tibet”. I sei incontri ad alto livello degli ultimi anni fra Pechino e Dharamsala “non hanno raggiunto alcun risultato”, fanno notare gli esuli. Alcuni dubitano persino della reale volontà degli emissari di compiere reali passi in avanti, “come se lo status quo attuale andasse bene a tutti”.

La Casa Bianca ha accolto con favore la ripresa dei colloqui e auspicato che producano risultati. “E’ importante che il dialogo riprenda”, ma “deve essere sostanziale”, per “dare risposte vere alle inquietudini legittime e profonde dei tibetani”, ha puntualizzato giorni fa il presidente americano George W. Bush. “Non ci aspettavamo molto e sulla base delle nostre aspettative il dialogo si è svolto in modo positivo”, ha dichiarato Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo tibetano in esilio a Dharamsala, in India. Al dialogo “non ci sono alternative”, ha commentato un portavoce: “Consultazioni costanti sono vitali, tanto nell’interesse della Cina, quanto del popolo tibetano. Ed è molto positivo che la Cina sia favorevole ad un altro incontro”, che avverrà in data da stabilirsi, o “al momento opportuno”, per stare alla versione dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, la quale si è affrettata a chiarire che il governo cinese si è reso disponibile solo “per la ripetuta insistenza” del leader spirituale tibetano e non per le pressioni internazionali. D’altra parte, i disordini a Lhasa e nelle altre regioni tibetane hanno creato “nuovi ostacoli” sulla via del dialogo e “messo a repentaglio gli interessi fondamentali di tutti i cinesi, tibetani inclusi”, hanno sottolineato i due vice-ministri mandati da Pechino. Insomma, tutti gli sforzi delle autorità cinesi sono tesi a far passare l’immagine di una Cina predisposta al dialogo cui però i tibetani rispondono con rivolte violente come quelle del mese scorso.

Nel frattempo, infatti, proseguono i duri attacchi dei media cinesi contro il Dalai Lama, accusato di aver commesso “mostruosi crimini”, di “confondere l’opinione pubblica e incitare all’odio etnico” per dividere la Cina, si legge in un commento pubblicato dal Quotidiano del Tibet. Ma a prescindere dalle reali intenzioni, non è certo un fatto trascurabile che il governo cinese abbia accettato di riprendere i colloqui con emissari del Dalai Lama a un mese dalle rivolte che hanno investito Lhasa e decine di centri nelle regioni tibetane. Dimostra se non altro che il regime non può permettersi il lusso di ignorare del tutto le pressioni diplomatiche e le veementi proteste delle opinioni pubbliche occidentali che hanno accompagnato il passaggio della torcia olimpica. Quanti denunciavano la “cricca” del Dalai Lama e i suoi complotti per dividere la Cina, oggi ricevono i suoi emissari. Per la prima volta il pubblico cinese ne ha notizia e può dunque percepire una contraddizione nell’atteggiamento del suo governo: da una parte le peggiori accuse nei confronti del Dalai Lama; dall’altra una ripresa del dialogo, seppure solo formale e indiretto, con il leader tibetano in esilio, che di per sé trasmette la sensazione di un alleggerimento di approccio nei suoi confronti. Almeno da parte degli esponenti del governo centrale e dell’agenzia di stampa ufficiale in questi giorni si parla di “gruppo”, o “parte” del Dalai Lama, e non più di “cricca”.

Ma a ben altro dovremmo assistere prima di poter parlare di svolta rispetto a una storia trentennale di contatti trascorsa senza che Pechino muovesse un solo passo in avanti. E infatti c’è l’altra faccia della medaglia, quella tenuta nascosta agli sguardi dei giornalisti occidentali e degli stessi cittadini cinesi. I media di Stato continuano l’opera di demonizzazione del Dalai Lama; in Tibet prosegue e s’intensifica la campagna di “rieducazione” patriottica e ideologica che coinvolge anche i monasteri. Senza parlare delle migliaia di arrestati e torturati tra monaci e civili, delle condanne esemplari e dei 200 manifestanti uccisi. La Cina si è dimostrata certamente pronta a sacrificare la propria immagine olimpica pur di non apparire debole e insicura di fronte alle sfide alla sua stabilità interna. Tuttavia, a Pechino sono anche consapevoli di non potersi permettere di avere tutto il mondo contro – gli Stati Uniti, ma anche i più concilianti europei. E così, stretti tra due necessità, cercano di mantenere un fragile equilibrio tra pugno duro all’interno e volto dialogante all’esterno. L’interdipendenza economica non condiziona solo in un senso. Su questioni come la rivalutazione dello yuan, la tutela della proprietà intellettuale, le barriere commerciali, un inasprimento delle politiche Usa e Ue danneggerebbe l’economia cinese.

Le richieste di Pechino al Dalai Lama sono sempre le stesse e a ribadirle ci ha pensato lo stesso presidente Hu Jintao, in un’intervista rilasciata ad alcuni media giapponesi. “La nostra politica verso il Dalai Lama é chiara e coerente: la porta del dialogo rimane aperta”. Hu Jintao, secondo quanto riportato da Xinhua, spera che questa volta i contatti possano produrre “risultati positivi” e auspica che il Dalai Lama “sappia assumere azioni concrete per fermare la violenza e porre fine al separatismo e ai tentativi di sabotaggio delle Olimpiadi”. Sono queste “le condizioni per ulteriori colloqui”. Come a dire: prima fateci svolgere senza incidenti le Olimpiadi, poi tratteremo. Ma c’è da fidarsi? Perché Pechino per fare passi avanti nei colloqui continua a porre condizioni che il Dalai Lama ha già soddisfatto da tempo? In realtà, sebbene riconosca la piena sovranità della Repubblica popolare sul Tibet, la guida spirituale dei tibetani rifiuta di ammettere, come vorrebbero i cinesi, che tale è sempre stata. E sebbene respinga qualsiasi suggestione indipendentista e abbia abbracciato la causa dell’autonomia e il metodo della nonviolenza, sembra non voler cedere su un punto particolarmente oneroso per Pechino dal punto di vista territoriale.

Secondo il governo tibetano in esilio, la nuova regione autonoma dovrebbe includere il cosiddetto “grande Tibet”: non solo l’attuale regione autonoma, ma tutte le aree tradizionalmente di etnia tibetana che oggi fanno parte delle province cinesi dello Sichuan, dello Yunnan, del Gansu e del Qinghai. Circa un quarto dell’intero territorio cinese. E, riguardo il futuro status, rimarrebbe poi aperta la questione di milioni di famiglie di etnia han che ormai vivono in Tibet da più generazioni e da ridefinire la permanenza delle truppe cinesi. Ma per Pechino non è solo un problema di integrità territoriale. Si tratta anche dell’integrità e della coerenza del suo sistema di potere, che non sopporta crepe. Ne va dell’esistenza stessa del regime. Concedere una vera, concreta, autonomia ai tibetani significherebbe aprire una sia pur circoscritta dialettica politica con un centro di potere diverso dal Partito comunista e quindi in grado di limitarne, sia pure in misura minima, il potere; minare le fondamenta dell’attuale sistema di governo centralizzato, cementato non più dall’ideologia marxista o maoista ma dal nazionalismo e dal monopartitismo. Il governo centrale incontra già oggi molti limiti nella sua azione, che spesso risulta assai debole. Ma quei limiti attualmente risiedono nei privilegi e nella corruzione dei burocrati locali, non nell’autonomia di un’autorità politica distaccata dalla guida comunista. Per questo riteniamo improbabile che eventuali negoziati, anche “sinceri”, tra governo di Pechino e governo tibetano in esilio possano produrre risultati tangibili prima che venga ridiscusso in profondità, alla radice, l’intero sistema di potere cinese.


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