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PD, L'INCERTO FUTURO DELLE CORRENTI STAGNANTI
Le molte fazioni createsi all'interno del partito di Veltroni, divise tra "sociali" e "liberali", si sfidano all'insegna di una immobile e preoccupante stagnazione.
di ANTONIO FUNICIELLO

[01 lug 08]
Qualche tempo fa Andrea Marcenaro sbeffeggiò le correnti del Partito democratico segnalando la loro costitutiva immutabilità rispetto a un quadro politico in costante cambiamento: scrisse, sul Foglio, che più che correnti, si sarebbero dovute chiamare “stagnanti”. A voler solo considerare la cencelliana composizione dell’ultima direzione nazionale del partito, lo sberleffo di Marcenaro è confermato: 7 per cento lettiani, 10 per cento bindiani, 10 per cento rutelliani, 23 per cento popolari, 50 per cento diessini. Se poi si procede oltre, andando a vivisezionare con più accuratezza le correnti stagnanti del Pd, ci si accorge che la differenziazione interna a quelle percentuali è ancora più minuziosa e immobilizzante. Questo perché le diversificazioni tra aree non si producono secondo logiche di orientamento politico tradizionalmente intese, ma spesso in virtù di motivazioni che niente hanno a che fare con la progettazione politica.

Nel Pd non compaiono nitidamente una destra e una sinistra interne come altrove. Intendiamoci, si sta parlando di una destra e una sinistra senz’altro sfaccettate, articolate problematicamente nel loro stesso seno, ma che ovunque caratterizzano la conquista della guida del partito l’una - la destra - in senso più “liberale”, l’altra - la sinistra - in senso più “sociale”. Niente di tutto questo riguarda il Pd, poiché le correnti stagnanti che ne avvelenano, più che animarlo, il dibattito interno, non rispondono a logiche politiche, quanto strumentalmente ai feticci identitari a cui si ostinano a fare riferimento. Il tutto è complicato dalla realtà dei fatti, molto più veloce del portamento elefantiaco dei democratici, che impone al Pd di fare i conti col bivio innanzi al quale si è trovato dopo le elezioni: imboccare la strada che riporta alla vecchia alleanza antiberlusconiana con tutti quelli che ci stanno o proseguire nella strada innovatrice del partito a vocazione maggioritaria? Niente da fare, di fronte a questa classica biforcazione, che inviterebbe comunque al rilancio dell’iniziativa politica, le stagnanti correnti del Pd preferiscono avvitarsi su se stesse.

Nel Pd destra e sinistra interne sono spezzettate nei mille frammenti che compongono le percentuali cencelliane secondo le quali è stata composta l’ultima direziona nazionale del partito. Frammenti che si possono ricomporre solo a patto di dragare la palude delle stagnanti correnti del Pd. La sinistra interna stagna, in gran parte, nel porto dalemiano recentemente ristrutturato col nome evocativo di Red (“Riformisti e Democratici”). Dalla politica fiscale vischiana alla comunanza d’intenti col capitalismo relazionale italiano, i Red Hot D’Alema Peppers sono tra i più convinti restauratori del tatticismo unionista antiberlusconiano. Ma la sinistra interna del Pd stagna anche nella darsena veltroniana: si pensi soltanto all’antinuclearismo ideologico di una Legambiente schierata in prima fila col segretario. Come pure nella baia cosiddetta “bindiana”, entro la quale hanno cittadinanza anche gli ultimi rappresentanti del prodismo e nella secca di parte del popolarismo post democristiano.

La destra interna democratica stagna, invece, in altri lidi. Nell’ansa dei coraggiosi di Rutelli, usciti molto ridimensionati dopo la batosta alle comunali romane. Dalle parti dei lettiani, tra i più innovativi in politica economica, eppure sempre attratti dalla bizzarra tentazione di attraccare nel porto dalemiano. La destra democratica stagna anche in quel segmento minoritario di popolarismo post democristiano fedele a Veltroni, ma non del tutto convinto che nel Pd sia definitivamente iscritto il proprio destino. Nelle acque basse in cui si muove il segretario, stagna anche la componente più liberale degli ex diessini, che dopo aver prodotto la notevole innovazione del programma elettorale del partito e, in particolare, di alcune scelte fondamentali di cambiamento di prospettiva politica, è alla ricerca del vento più propizio per tornare a spiegare le vele.

Fatti, pure molto approssimativamente, i conti, nel Pd la scomposta sinistra “sociale”, pare essere più forte della scomposta destra “liberale”. Considerato il contesto storico entro cui si colloca la nascita del Pd, non c’è da sorprendersi. In tutto il mondo occidentale i partiti di centrosinistra partecipano a un rigurgito identitario, al cospetto dell’instaurata governance della globalizzazione che non sanno affrontare sul fronte dell’innovazione politica, lasciando il passo a un centrodestra che pare più attrezzato. Non è facile, però, ipotizzare che questa sinistra interna soggioghi la destra interna. Vista la stagnazione complessiva del dibattito culturale democratico e la denunciata frammentazione di destra e sinistra interne, è incauto azzardare ipotesi sul futuro. E’ certo che la prima corrente che riprenderà a fare il suo dovere - che tornerà quindi a “correre”, come dall’azione insita nel participio presente che definisce la parola stessa - prenderà agilmente il sopravvento sull’altra, per riportare finalmente il Pd nel mare aperto della lotta politica.


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