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di Alessandro Marrone

 

[05 mar 08]

Hillary torna in corsa, McCain è il primo candidato

Le primarie del 4 marzo consegnano la nomination repubblicana a John McCain, mentre in campo democratico le vittorie di Hillary Clinton in grandi Stati come Texas e Ohio la pongono di nuovo testa a testa con Barak Obama per la candidatura democratica. Con il 90 per cento delle schede scrutinate, Clinton ha 12 punti di vantaggio in Ohio, 18 in Rhode Island e 4 in Texas, mentre Obama vince con una schiacciante maggioranza in Vermont. Se il dato texano sarà confermato dallo scrutinio definitivo, la senatrice di New York conquisterà in queste primarie oltre 400 delegati contro i 23 del rivale dell’Illinois. Obama limita i danni solo grazie al fatto che un terzo dei delegati del Texas sono designati non dalle primarie ma dai caucus, da lui vinti, e che i “superdelegati” indicati dai vertici del partito siano passati dall’appoggio compatto a Hillary ad una ripartizione più o meno paritaria tra i due candidati. Le sconfitte di Obama smentiscono di nuovo e clamorosamente la tendenza di molti media americani, ripresa pedissequamente in Italia, a confondere la moda di Hollywood e gli endorsement del New York Times con il vero consenso popolare. Dopo le ultime primarie sembra che Obama sia diventato un po’ di più il candidato dell’establishment partitico (ha l’appoggio di quasi metà dei super delegati), economico (raccoglie più fondi della rivale) e mediatico (la schiacciante maggioranza dei media parteggia per lui), mentre la Clinton continua ad avere un forte consenso popolare che ieri le ha consegnato la vittoria nei decisivi test di Ohio e Texas.

A proposito di voto popolare, da un’analisi delle vittorie contea per contea si possono trarre interessanti spunti di riflessione. Nello Stato industriale affacciato nei Grandi Laghi, Obama ha vinto solo in quattro grandi città – Cleveland, Columbus, Dayton e Cincinnati – e Clinton nel 90 per cento delle contee: ciò sembra testimoniare che il candidato afroamericano mantiene l’appoggio dei giovani ma non sfonda tra i lavoratori e tra la popolazione anziana, che sembrano dare più importanza alla competenza della sua rivale che al sogno da lui evocato. Nello Stato al confine con il Messico il quadro è leggermente diverso: Obama ha infatti vinto nei grandi centri di Houston, Dallas, Austin e Forth Worth, ma ha perso in città popolose come El Paso, San Antonio e Laredo: come suggeriscono questi ultimi nomi, è stato l’elettorato latino-americano a far pendere la bilancia dalla parte di Hillary, come già avvenuto in tutto il sud-ovest statunitense fino alla California, e in Florida. Infine, nella East Coast il trionfo di Clinton in Rhode Island è compensato da quello di Obama in Vermont, certificando la sostanziale divisione della componente wasp (white Anglo Saxon protestant) tra i due candidati. Sembra dunque che il Partito democratico debba ancora fare i conti con una duplice spaccatura, generazionale (giovani con lui, adulti con lei) e razziale (neri con lui, latinos con lei, bianchi divisi), che renderà incerto l’esito anche delle prossime primarie.  

In campo repubblicano invece il quattro a zero di McCain contro Huckabee in Texas, Ohio, Vermont e Rhode Island consegna matematicamente la nomination al senatore dell’Arizona, che oggi può davvero dire all’America “Mac is back!”. Tuttavia la schiacciante vittoria politica del front runner espressione dell’ala moderata del Grand Old Party non è priva di ombre. Se infatti sulla costa orientale dalle inclinazioni più liberal McCain ha stravinto con il 72 per cento dei voti in Vermont ed il 64 in Rhode Island, e sui Grandi Laghi si è affermato con il 59 per cento dei suffragi in Ohio, nel ventre texano dei conservatori americani ha ottenuto “solo” il 51 per cento. Ciò vuol dire che metà dell’elettorato repubblicano nella roccaforte di Bush proprio non ne vuole sapere di un candidato che non sente il fervore religioso dell’attuale presidente, che non è un rigido sostenitore della linea pro life, che vuole regolarizzare gli immigrati illegalmente già presenti negli Stati Uniti, e che non ha disdegnato accordi bipartisan in Congresso quando lo riteneva opportuno. Per conquistare quest’ultima fetta di repubblicani a quanto pare non è bastato a McCain né l’endorsement implicito del presidente Bush né quello esplicito del fratello Jeb, e nemmeno quelli di ex segretari di Stato conservatori del calibro di James Baker ed Henry Kissinger.

L’opera di ricompattamento del Grand Old Party attorno a McCain non sembra dunque riuscita del tutto, e ora che la nomination è ufficialmente acquisita il candidato repubblicano potrebbe domandarsi se è il caso di inseguire ulteriormente a destra i voti del suo ex rivale Huckabee, o se invece è meglio che la sua road to Washington passi per l’area di indecisi e indipendenti attirati proprio dai suoi connotati bipartisan. McCain e i repubblicani possono ora contare sul vantaggio di iniziare la campagna vera e propria per le elezioni presidenziali in anticipo sui democratici. Infatti, con le ultime vittorie clintoniane la convention del partito dell’Asinello è ancora più spaccata, e poiché il calendario delle prossime primarie non vede grandi appuntamenti decisivi ma chiama al voto solo uno o due Stati per volta è probabile che lo scontro fratricida Obama-Clinton proseguirà fino a giugno. Tutti mesi guadagnati per i repubblicani, impegnati a convincere gli elettori che l’elezione di un afroamericano o di una donna alla Casa Bianca si può fare ma non è detto che si debba fare per il bene degli Stati Uniti.

 



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