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Usa, l'Iraq al centro della campagna elettorale
di ALESSANDRO MARRONE

[25 mar 08] La scorsa settimana il dibattito politico americano è stato investito dallo scandalo delle intrusioni da parte di alcuni dipendenti del dipartimento di Stato nei database riservati di Clinton, McCain e Obama. Ma aldilà degli spettri del Watergate, peraltro abbastanza remoti considerato che tutti i candidati alla Casa Bianca sono stati vittime delle intrusioni e che sembra trattarsi più di una negligenza del dipartimento di Stato che di un complotto, altri temi sono stati al centro delle attività dei tre leader. Nel quinto anniversario dell’invasione dell’Iraq, la guerra è stato il tema centrale di un incontro prima di Pasqua tra Hillary Clinton e alcuni giovani marine reduci dal fronte, che segue un analogo meeting con Obama tenutosi pochi giorni prima. La candidata democratica ha spiegato il suo piano per iniziare il ritiro delle truppe dall’Iraq entro 60 giorni dal suo eventuale arrivo alla Casa Bianca, affermando esplicitamente che i politici iracheni hanno fallito nell’opera di ricostruzione e riconciliazione e che i soldati americani non possono rimanere lì ad aspettarli. Ascoltando le testimonianze dei disagi fisici e psicologici che scontano i reduci del conflitto, ha inoltre promesso più fondi per il programma federale di assistenza ai veterani. Inevitabilmente uno dei soldati ha domandato alla Clinton, che nel 2002 in Congresso votò a favore della guerra, se non si sente responsabile per quanto patito dalla popolazione irachena in questi anni. E’ questo un punto debole agli occhi dell’elettorato democratico per la senatrice di New York, e Obama non manca di sottolineare come lui abbia fatto all’epoca la scelta “giusta” di votare contro la guerra a differenza della rivale “esperta”. La senatrice ha risposto al marine promettendo di impegnarsi più di Bush per far sì che il governo iracheno spenda i proventi del petrolio per i servizi basilari per la popolazione, ma ha comunque ribadito che questo “non è un problema dell’America”. Nel corso dell’incontro, Clinton ha ricevuto l’importante endorsement del braccio destro del presidente della Camera Pelosi, il deputato e veterano del Vietnam John Murtha, che potrebbe influire sulla scelta dei superdelegati del partito democratico ancora incerti su chi appoggiare nella convenzione che sceglierà tra lei e Obama. 

Negli stessi giorni in cui Clinton incontrava i reduci dell’Iraq, McCain era personalmente a Baghdad per l’ottava volta in pochi anni, per incontrare di nuovo le truppe americane e i vertici del governo iracheno. Il senatore dell’Arizona, a differenza della collega di New York, è rimasto coerente nel sostenere la necessità per gli Stati Uniti di intervenire e di stabilizzare l’Iraq, criticando invece apertamente il modo in cui la presidenza Bush ha gestito il conflitto. Ora che la strategia del surge – proposta da McCain prima che dalla Casa Bianca – sta avendo successo, il candidato repubblicano ribadisce la volontà di mantenere la presenza militare americana per il tempo necessario a stabilizzare il Paese e sconfiggere Al- Quaeda e i suoi alleati, in opposizione al ritiro senza condizioni promesso da entrambi i candidati democratici. A proposito di politica estera, McCain con l’articolo scritto sul Financial Times del 19 marzo ha esposto le linee guida che attuerebbe se fosse eletto presidente. Il testo inizia non casualmente con le parole “American and Europeans”: il concetto principale affermato da McCain è infatti che la comunità transatlantica deve affrontare insieme le sfide dell’attuale contesto internazionale e, riprendendo un suo vecchio slogan, il senatore dell’Arizona ribadisce che gli Stati Uniti “devono cercare di convincere i Paesi amici delle loro ragioni, ma devono anche essere disposti a farsi convincere dalle loro”. Tendendo ulteriormente la mano verso la sponda europea dell’Atlantico e usando parole raramente ascoltate da un repubblicano, McCain ha scritto che la leadership europea è benvenuta nello sforzo di rendere il mondo più sicuro. Ha concluso affermando di sostenere fortemente sia la politica europea di sicurezza e difesa dell’Ue sia il pieno reintegro della Francia nella Nato. Un’apertura di credito al Vecchio Continente senza precedenti, accompagnata da una richiesta altrettanto forte e franca: che l’Europa spenda i soldi necessari per costruire le capacità militari e civili da impiegare nelle aree di crisi, a cominciare da Balcani e Afghanistan.

La collaborazione transatlantica per McCain sarebbe il cuore di un più ampio sforzo congiunto delle democrazie nel mondo – dal Giappone al Brasile, dall’India alla Turchia – per difendere i valori comuni e gli interessi condivisi sulle diverse questioni al centro dell’agenda internazionale. Ma per poter avviare un tale sforzo gli Stati Uniti debbono riconquistare il rispetto della comunità internazionale, e per questo secondo McCain “non possiamo torturare i sospetti terroristi che abbiamo catturato. Dobbiamo chiudere la prigione di Guantanamo”. Sul difficile equilibrio tra la sicurezza e i diritti civili si consuma probabilmente la più grande rottura di McCain con la presidenza Bush, ma non certo l’unica. Dalle colonne del FT McCain infatti rilancia il suo impegno nella lotta al riscaldamento climatico, riproponendo un sistema “cap-and-trade” che, sfruttando anche le nuove tecnologie, renda vincolante e conveniente per il sistema industriale ridurre le emissioni di gas serra. Con la sua solita franchezza, che tanti consensi gli ha valso finora tra gli elettori indipendenti e democratici, McCain scrive anche che gli Stati Uniti devono liberarsi dalla dipendenza dal petrolio che li lega alle autocrazie che esportano greggio e gas, e che l’Europa dovrebbe fare lo stesso con la Russia. Sarebbe interessante sapere cosa risponderanno alle sue parole i leader di Francia, Gran Bretagna e Israele, che McCain sta incontrando in questi giorni di viaggio tra il Medio Oriente e l’Europa.

Mentre Clinton e McCain erano alle prese con la politica estera, Obama ha affrontato pubblicamente la questione razziale negli Stati Uniti. Il senatore afro-americano è stato finora ben attento a non presentarsi come l’espressione di un’etnia, ma anzi come il candidato in grado di riunire un Paese politicamente spaccato dagli anni dell’amministrazione Bush. Probabilmente avrebbe continuato su tale linea se la scorsa settimana non fossero finiti al centro del dibattito politico i sermoni molto duri sulla questione razziale del pastore nero Jeremiah Wright, che lo ha battezzato ed ha giocato un importante ruolo spirituale nel suo percorso di cristiano e nella vita della sua famiglia. Gli avversari democratici di Obama hanno avuto così buon gioco ad accostarlo alle infiammate parole del suo ex mentore sulla condizione dei neri e sulle colpe dei bianchi, sebbene siano in seguito circolate foto nelle quali lo stesso Wright stringeva calorosamente la mano a Bill Clinton, del quale appoggiò la campagna elettorale negli anni Novanta. Lo staff della Clinton ha in ogni caso cercato di intrappolare Obama nel cleavages razziale finora scampato, ed il candidato di colore ha deciso di affrontare di petto la questione in uno dei suoi comizi.

Il senatore dell’Illinois ha condannato i discorsi di Wright, ma ha anche sottolineato i motivi reali di rabbia e frustrazione che spingono parte della comunità nera su posizioni radicali. Cercando di porsi implicitamente come trait d’union tra bianchi e neri d’America, Obama non a caso ha iniziato il suo discorso citando le parole dei Padri Fondatori degli Stati Uniti: “Noi, il popolo, al fine di creare una più perfetta unione…”. Sebbene si sia richiamato alla grande tradizione del movimento per i diritti civili, Obama ha anche preso in considerazione i sentimenti di quanti, tra i bianchi, vedono l’affirmative action – la corsia preferenziale nell’accesso ai posti di lavoro e ai sussidi pubblici accordata agli afro-americani in quanto minoranza etnica – come una forma di assistenzialismo ormai ingiustificato che li danneggia. Tenere un discorso del genere su un nervo scoperto della società americana e su un punto debole della propria candidatura che si è cercato finora di mettere in secondo piano, da parte di Obama è stato forse un azzardo rischioso ma di certo un atto coraggioso. Occorrerà vedere se anche nel suo caso la fortuna premia gli audaci.


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