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L'eroe cancellato di un Paese senza miti
di ALDO G. RICCI

[21 mar 08] L’idealità di un popolo, i suoi valori condivisi solo in minima parte nascono spontaneamente. Si creano nel tempo e in certe condizioni, con il concorso dell’arte, della scuola, della politica, delle associazioni, delle leggi, delle istituzioni e così via. La retorica e la ritualistica ne costituiscono invece un surrogato, che nasconde, dietro la facciata ufficiale, la fragilità delle basi dell’edificio.

Ne era consapevole, sia pure in modo confuso, lo stesso Garibaldi, che percepiva la distanza tra realtà e idealità, quando dichiarava che era un’altra Italia quella sognata dai patrioti che con lui avevano combattuto. Naturalmente era anche consapevole che il poco è sempre meglio del niente e che la lunga strada che il Paese aveva davanti doveva essere percorsa faticosamente dagli italiani e dalla politica, dalla società e dalle istituzioni. Ma per sé, per quello che la sua memoria era stato e avrebbe ancora potuto essere, non voleva che tutto questo venisse omologato in uno dei tanti santuari patri su cui, passata la stagione dei riti e delle cerimonie, si sarebbero inevitabilmente accumulate la polvere del tempo e le ragnatele dell’oblio.

Anche per questo, di là delle sue personali inclinazioni, che lo portavano a privilegiare la cremazione per l’atto finale della sua vita, il nostro eroe, di solito così noncurante di tutto quello che riguardava la sua persona, aveva invece preparato accuratamente una conclusione che può essere definita degna di un eroe omerico. Garibaldi sapeva bene gli effetti misterici, i contenuti simbolici e le implicazioni epiche di un finale in cui il vecchio guerriero in camicia rossa brucia davanti al suo mare. Un eroe che si consuma nel fuoco, come Ettore, Achille o Artù, perde il corpo mortale per acquistarne uno mitico e imperituro: un effetto troppo in contrasto con una ritualistica che si andava invece indirizzando verso risultati molto più immediati e innocui, burocratici e tradizionali, all’insegna di una religione civile di largo consumo, ma anche immune da slanci imprevedibili e potenzialmente pericolosi. Insomma, verso una religione laica di Stato, piuttosto che verso una religione civile della Nazione: una religione destinata al declino parallelamente al declino dello Stato stesso.

Quindi niente pira omerica per il nostro eroe e, se si escludono Carducci e alcuni passi di Pascoli e di D’Annunzio, niente epica, tra l’altro tramontata ormai da un pezzo come genere letterario e sostituita dal romanzo storico, ma oltre 600 tra monumenti, lapidi e busti sparsi per la penisola, dove deporre corone nelle date topiche, insieme con alcune migliaia di vie e piazze intitolate al suo nome: esattamente quod non erat in votis del diretto interessato e di chi, come Carducci, se ne intendeva di uso pubblico della Storia.

L’utilizzazione politica della sua memoria, come si è visto nel primo capitolo, è stata tanto trasversale, quanto universale, per oltre mezzo secolo, e si è interrotta nel secondo dopoguerra per le ragioni che all’inizio si è cercato di spiegare.

L’epica invece non è mai nata, a meno che, scherzosamente ma non troppo, non si vogliano considerare tali i romanzi popolari di Salgari, in particolare nei cicli di Sandokan e del Corsaro Nero, con gli infiniti punti di contatto che presentano con le gesta del nostro eroe: dalla ‘guerra di corsa’ all’amore per il mare, dalla lotta contro i tiranni e in difesa degli oppressi al mito dell’isola e così via. Due cicli di decine di romanzi che prendono il via, non a caso, nel 1884, pochi mesi dopo la morte di Garibaldi, ricalcando molti particolari della sua vita, come ha bene illustrato Omar Calabrese in un saggio del 1982. Romanzi che hanno alimentato la fantasia di generazioni di giovani italiani, inconsapevoli che dietro la barba di Sandokan e del Corsaro Nero si nascondeva quella molto meno esotica del nostro eroe.

L’unica eccezione, per l’epica stricto sensu, è rappresentata da un ventenne poeta siciliano, Edoardo Salmeri, che nell’agosto del 1944, quindi non a caso nel momento più difficile e drammatico della nostra storia unitaria, si presentò a Benedetto Croce con un Poema all’Italia di ventimila versi in ottave (poi ampliato e rielaborato nel corso di tutta la vita), dedicato alla vita dell’eroe per averne un giudizio e, possibilmente, l’approvazione.

Commossa e, allo stesso tempo, significativa la risposta di Croce, che incoraggia il giovane a proseguire nel compito che si era prefissato di richiamare il popolo italiano al culto di un eroe nazionale che era stato anche eroe dell’umanità.

“Voi, senza forse rendervene ben conto, siete venuto incontro al bisogno del nostro popolo, che ama sempre di udire recitare e di leggere ottave che gli dipingono nella fantasia le gesta mirabili dei cavalieri antichi. E quali gesta più mirabili di quelle di Giuseppe Garibaldi, che sono per di più storicamente sostanziose e patriotticamente edificanti?”

Ma l’entusiasmo e la dedizione del giovane poeta e letterato siciliano, rimasto non a caso solo nel suo tentativo e pressoché sconosciuto al largo pubblico, non sono stati ovviamente sufficienti a contrastare il declino del mito del nostro eroe, dopo l’uso di parte degli anni precedenti, e la sua progressiva riduzione, con poche eccezioni, a icona inoffensiva per le feste comandate di questi ultimi sessant’anni. Anche la valutazione di Croce, che immaginava gli italiani del dopoguerra desiderosi di ascoltare versioni epiche delle sue gesta si è rivelata più un auspicio, dettato dall’ottimismo per la guerra conclusa, che una previsione concretamente fondata.

Infatti, cessata l’utilizzazione politica trasversale del nostro eroe negli anni compresi tra la sua morte e la caduta del fascismo, il silenzio ha poi avvolto lui e il suo mito. Se si escludono alcuni leaders, piuttosto isolati in queste loro passioni (da Craxi a Spadolini) nel bagaglio dei partiti-chiesa, a forte componente ideologica, e delle classi dirigenti che hanno guidato l’Italia in questo secondo dopoguerra, dal governo o dall’opposizione, non c’era posto per un personaggio come Garibaldi, se non nelle forme canoniche sempre più rarefatte delle ritualità, così come in quelle tradizioni non c’era posto neppure per l’eredità risorgimentale in genere, non a caso negletta in tutte le sue componenti.

Ma non è stato solo un problema di partiti e di classi dirigenti. È il nostro sistema-paese nel suo complesso che ha risentito dei contraccolpi dell’esito della guerra e delle modalità della sua conclusione, disseccando quanto sopravviveva delle radici identitarie della Nazione. La guerra fredda ha occultato a lungo l’inaridimento di quelle radici e le contraddizioni potenzialmente paralizzanti di un sistema politico bloccato e fortemente partitocratrico, ma la sua implosione, ancora incompiuta, ha aperto il vaso di Pandora, dando l’avvio a una tempesta che non ha esaurito i suoi effetti completamente.

‘Mani pulite’, che è stato ovviamente un sintomo e non la causa della crisi di una parte del sistema dei partiti all’inizio degli anni Novanta, ne ha compiuto una prima decimazione, salvando quanti ‘sembravano’ immuni da responsabilità dirette di governo, e quindi di corruzione. Ma la marea antipartitica che, in questi mesi, sembra pronta a tutto sommergere, e di cui sarebbe sciocco negare le forti motivazioni oggettive, parrebbe destinata a completare l’opera avviata oltre dieci anni or sono, facendo pagare a quella parte della classe politica allora graziata il mancato rinnovamento del sistema.

Alcuni commentatori hanno evocato, con qualche ragione, il rischio che l’Italia precipiti in una sorta di buco nero, in assenza di controtendenze forti al declino economico e civile, oltre che politico, incombente. Ma le profezie, si sa, sono tali per definizione: e quindi sempre possibili, a volte probabili, ma spesso destinate anche a non realizzarsi, almeno a breve, in quanto non ci sono limiti predefiniti alla durata dei processi di declino, perché l’Italia è inserita in un sistema Europa che, bene o male, e pur con tutti i suoi limiti, la contiene.

A questo punto sorge spontanea la domanda. Che cosa c’entra Garibaldi con tutto questo discorso? Il nesso, sia pur mediato e marginale, c’è. Ripercorrendo i passaggi salienti della sua vita, abbiamo potuto verificare il ruolo decisivo che la sua figura ha svolto nei quarant’anni del Risorgimento, un ruolo che ne fa il vero archetipo non solo dell’eroe risorgimentale, ma anche dell’eroe nazionale tout court, quell’eroe che accompagna spesso la nascita delle nazioni o il processo attraverso il quale arrivano a strutturarsi in Stato.

Il declino del suo mito, pur nelle tante versioni promosse dai diversi sostenitori interessati che lo hanno gestito per fini diversi nel corso di un secolo, è comunque un tassello, e non dei minori, del ben più vasto fenomeno di cancellazione delle radici identitarie che ha investito l’Italia del dopoguerra, e che è emerso in tutta la sua portata con l’apertura di quella lunga fase di transizione e di stallo del sistema politico-istituzionale che si è aperta all’inizio degli anni Novanta e di cui non s’ intravede la conclusione.

L’Italia non è solo un Paese in difficoltà economiche e politiche, ma è anche un Paese in crisi di identità, povero di emozioni e sentimenti condivisi. Ora, la nostra identità è fatta di tante radici e tra queste il Risorgimento non è certamente tra le minori. Ma il Risorgimento, senza Garibaldi, come abbiamo visto, perde molto del suo fascino, soprattutto se considerato sotto il profilo della sua componente mitico-ideale, componente essenziale non solo nella costruzione dei processi identitari, ma anche per la loro sopravvivenza.

Da questa analisi non discende né una ricetta, né una conclusione vera e propria, ma piuttosto una semplice considerazione, che è poi la vera ragion d’essere di questo saggio: raccontare i passaggi salienti della vita di Garibaldi, che hanno contribuito alla nascita del suo mito, soprattutto in questo particolare momento in cui parlarne male sembra essere di moda, oltre a soddisfare il piacere di chi ne scrive e forse anche di qualche lettore, vuol dire spezzare una lancia, sia pure minuscola, per contrastare i meccanismi di cancellazione della memoria e delle radici che sono in atto nel nostro Paese, dove il cupio dissolvi sembra essere ormai l’imperativo dominante.

Riaffermare, semplicemente e con il minimo di retorica possibile, l’importanza di un mito fondante della nostra storia nazionale come quello di Garibaldi rappresenta una delle tante strade percorribili per contrastare questa tendenza autodistruttiva in atto, anche perché il mito del nostro eroe, prima e dopo la morte, rappresenta certamente l’espressione migliore della sua grandezza.

Nel finale di un film famoso, L’uomo che uccise Liberty Valance, di John Ford, viene pronunciata una frase quanto mai suggestiva: “Nel West, tra il mito e la realtà, vince sempre il mito”. È una frase che può insegnare qualcosa anche a noi. Quando la realtà di un Paese si mostra refrattaria a fare i conti con se stessa e a riallacciare i fili della memoria con le parti migliori del proprio passato, affidandole a una critica autolesionista, allora non resta che tentare di recuperare almeno il mito, dal momento che anche su quello si stanno esercitando da tempo i bisturi dei detrattori di professione.

Riappropriamoci, quindi, di questo mito, provando a riviverlo con gioia e leggerezza, come usavano fare i poeti dell’antichità, che ben sapevano, molti secoli prima di Foscolo, che “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti”. Coltiviamolo senza complessi, con gli strumenti di oggi, perché è uno dei pochi miti che ci appartiene realmente e che ha radici profonde, anche se molti si sono affannati e si affannano per ridurlo a una cartolina polverosa e consunta.

La cronaca dei nostri giorni ci insegna in mille manifestazioni, spesso volgari, a volte perfino pericolose, che il mito non vince solo nel West, come recitava il film di Ford. I miti, pur caduchi e circensi, nascono e vincono anche qui e ora, solo che non sono i miti di cui il nostro Paese avrebbe oggi invece disperato bisogno: un Paese purtroppo orgoglioso soltanto di non essere orgoglioso, come mi ricorda ogni tanto un mio vecchio amico, volontario diciottenne dopo l’8 settembre, deluso, ma non rassegnato di fronte al declino strisciante che l’Italia sta vivendo.

 

Estratto da Aldo G. Ricci, Obbedisco. Garibaldi eroe per scelta e per destino, Palombi editori, 2007, pp. 210, euro 19. 


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