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Per la guerra in Iraq è tempo di bilanci
di MATTEO GUALDI

[21 mar 08] A distanza di cinque anni dall’inizio della guerra in Iraq è tempo di bilanci. La visita del vicepresidente Dick Cheney, prima, e del candidato repubblicano alla Casa Bianca, John McCain, poi, dimostrano che l’America, o almeno una parte di essa, crede ancora nella missione irachena, e la pone al centro della propria politica nella war on terror. Il Presidente Bush, parlando ad una conferenza organizzata dal Pentagono sull’argomento, ha detto: “Questa è una guerra che l’America può e deve vincere”. Naturalmente sa bene che le polemiche tra chi pensa che la guerra sia stata un errore, e chi difende la scelta fatta non hanno mai accennato a placarsi. Le motivazioni che avevano portato all’intervento si sono in parte sgonfiate. Il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa ha scatenato polemiche infinite, e persino i legami tra Saddam Hussein ed Al Qaeda sono stati messi in discussione. All’inizio di marzo la stampa ha riportato la notizia secondo la quale un rapporto del dipartimento della Difesa statunitense sottolineava come quello “studio non ha rilevato la pistola fumante tra l’Iraq di Saddam ed Al Qaeda”. In effetti però questa frase non significa che non vi fossero collegamenti tra il rais di Baghdad e l’organizzazione di Bin Laden. A pagina 42, per esempio, il documento rileva che “Saddam supportava gruppi associati direttamente con Al Qaeda (come la Egyptian Islamic Jihad, guidata a quel tempo dal vice di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri) o che in generale condividevano con Al Qaeda finalità ed obiettivi”.

Insomma, a distanza di cinque anni la guerra continua a dividere. Solo pochi mesi fa, a settembre, in occasione dell’audizione al Congresso del generale Petraeus e dell’ambasciatore Crocker, il movimento pacifista MoveOn.org accusava il generale di non dire la verità sulla situazione irachena, mettendo in difficoltà perfino i candidati democratici alla Casa Bianca, accusati di scarso patriottismo.  Ma come stanno realmente le cose? A distanza di cinque anni qual è la situazione in Iraq? Per rispondere a questa domanda possiamo rifarci alle numerose testimonianze dei molti giornalisti inviati in Iraq, ed ai dati ufficiali del Pentagono, che proprio in questi giorni ha inviato al Congresso un report “Measuring Stability and Security in Iraq” nel quale vengono riportati i dati ufficiali rilevati sul campo. Secondo il dipartimento della Difesa americano dal giugno 2007  gli attacchi dei terroristi in Iraq sono diminuiti del 60 per cento, con punte del 90 per cento nella provincia di Al Anbar, che una volta era la roccaforte di Al-Qaeda.  Le perdite tra la popolazione civile sono diminuite del 70 per cento negli otto mesi successive al luglio 2007, e le perdite tra i militari della Coalizione sono diminuite della stessa percentuale dal maggio 2007. Le violenze settarie sono diminuite addirittura del 90 per cento a partire dal giugno 2007, ed hanno raggiunto il livello più basso dall’inizio del 2005.

Insomma, il surge iniziato più di un anno fa con l’invio di oltre 30mila uomini, ha indubbiamente portato un grande cambiamento sul campo. Ma non dobbiamo farci illusioni, perché la situazione è ancora lontana dall’essere stabilizzata. Il punto di non ritorno, il momento in cui la situazione diventa tale che qualunque cosa accada non può essere più ribaltata, non è ancora stato raggiunto. Inoltre ciò che le cifre non fotografano è che la vita quotidiana della popolazione irachena è ben lontana dalla stabilità, e la sicurezza è ancora un miraggio. Eppure qualcosa si muove e non possiamo far finta di niente. Le tribù locali hanno scelto di schierarsi, con gli Stati Uniti, contro Al Qaeda. Questa decisione, che ha varie motivazioni, rappresenta indubbiamente una svolta perché la nostra unica speranza non è tanto l’esercito americano, quanto piuttosto il popolo iracheno. Solo se quest’ultimo riuscirà a prendere in mano il proprio destino e sceglierà la via della tolleranza, della pacifica convivenza, della libertà e della democrazia potremo sperare di sconfiggere i terroristi islamici. Cinque anni possono sembrare tanti, ma la lotta per la libertà richiede tempi lunghi. Quella contro gli islamofascisti sarà una “lunga e crepuscolare battaglia”, per usare le parole del presidente Kennedy, riferite alla Guerra Fredda. La lotta contro l’Unione Sovietica ha richiesto quasi mezzo secolo, e ci sono voluti decenni per passare dalla Primavera di Praga alla caduta del muro di Berlino. Per il momento ciò che gli Stati Uniti ed i paesi della Coalizione dei volenterosi hanno fatto è stato liberare l’Iraq dalla dittatura sanguinosa  di Saddam Hussein, che soffocava ogni anelito di libertà. Ora, nonostante gli sbagli iniziali di Bremer e Rumsfeld, stanno cercando di creare le condizioni minime di sicurezza per consentire agli iracheni di prendere nelle proprie mani le sorti del Paese. L’Occidente può solo indicare la soglia, ma sono gli iracheni a dover decidere di attraversarla. 


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