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L'ombra della Cina sul voto a Taiwan
di RODOLFO BASTIANELLI

[21 mar 08] Le elezioni presidenziali che si terranno domani a Taiwan rappresentano forse la consultazione più importante da quando l’isola ha introdotto la democrazia ed il multipartitismo. I taiwanesi si recano alle urne per decidere se il loro Paese dovrà rinsaldare i suoi rapporti con Pechino, inaspritisi non poco durante gli otto anni della presidenza Chen Shui–bian, o continuare a rafforzare la propria identità nazionale. Proprio su questo tema durante la campagna si è incentrato il dibattito tra i due candidati, l’esponente del partito nazionalista Kuomintang Ma Ying–jeou ed il suo avversario democratico–progressista Frank Hsieh. Erede della formazione che ha governato l’isola per oltre cinquant’anni, il candidato nazionalista sostiene una linea più conciliatoria nei confronti di Pechino dichiarandosi pronto a rafforzare la collaborazione economica, tanto che nel corso della campagna ha affermato di voler incrementare i collegamenti aerei dicendosi nello stesso tempo favorevole ad allentare il tetto che limita il valore degli investimenti taiwanesi sul continente per creare un mercato comune tra le due rive dello Stretto. Una misura, questa, da tempo auspicata dagli ambienti imprenditoriali visto il notevole incremento dell’interscambio registratosi tra i due Paesi negli ultimi anni. Sul piano politico invece il programma di Ma Ying – jeou si presenta più sfumato, in quanto l’esponente del Kmt ha dichiarato come la sua linea verso la Cina Popolare si ispirerà alla formula dei “tre no” (no all’indipendenza dell’isola, alla riunificazione ed all’uso della forza da parte della Cina Popolare) pur essendo comunque intenzionato a riprendere i colloqui con Pechino attraverso tre diverse fasi che dovrebbero condurre prima alla normalizzazione dei rapporti economici e infine alla cessazione delle ostilità e ad una pace duratura.

Diversamente dal suo rivale nazionalista, il candidato del Dpp punta invece a rafforzare lo spazio internazionale dell’isola e l’identità nazionale taiwanese, anche se, a detta degli osservatori, l’unica vera differenza tra i due riguarderebbe non tanto la scelta di riavvicinarsi a Pechino quanto i tempi entro i quali questa dovrebbe avvenire. Al contrario dell’esponente del Kuomintang, Hsieh sostiene che gli investimenti in Cina vadano valutati caso per caso perché se questi raggiungessero un livello troppo alto potrebbero porsi dei problemi per la sicurezza nazionale, mentre in merito al dialogo con Pechino, pure se l’esponente democratico–progressista non ha chiuso alla ripresa dei colloqui bilaterali, ha comunque ricordato come la Cina Popolare abbia in questi anni cercato di restringere ogni spazio internazionale a Taiwan, usando contro l’isola anche toni ed atteggiamenti intimidatori, sottolineando inoltre che il numero di abitanti che si definiscono taiwanesi sia passato dal 30 al 70 per cento. La posizione di Taiwan sulla scena internazionale costituisce uno degli argomenti più sentiti dalla popolazione, tanto che, parallelamente alle presidenziali, gli elettori dovranno pronunciarsi su due referendum: si chiede quale nome debba usare l’isola in sede Onu. Taiwan, che ufficialmente si chiama Repubblica di Cina, da trentasette anni non ha più una rappresentanza alle Nazioni Unite, ovvero da quando nel 1971 l’Assemblea generale ammise la Cina Popolare espellendo contemporaneamente i delegati del governo di Taipei, che da allora non è considerato altro che una provincia di Pechino priva di qualsiasi soggettività internazionale. Lo status giuridico di Taiwan è quindi tuttora un rebus, visto che l’isola gode di un’indipendenza de facto ma non può essere ammessa a quelle organizzazioni internazionali per le quali la denominazione ufficiale costituisce un requisito per l’ammissione. Attualmente, Taiwan intrattiene rapporti diplomatici ufficiali con appena 23 Paesi, dei quali il più importante è il Vaticano, anche se mantiene comunque relazioni non ufficiali con un gran numero di Stati attraverso i suoi Uffici di rappresentanza.

Dei due quesiti referendari, quello proposto dal Kmt, chiede all’elettorato se il governo dovrebbe richiedere l’ammissione all’Onu sotto il nome di Repubblica di Cina o qualsiasi altra denominazione ritenuta utile, mentre quello avanzato dal Dpp al contrario afferma che l’isola dovrebbe avanzare la richiesta come Taiwan, proprio per sottolineare la sua autonoma identità nazionale, un sentimento condiviso da gran parte della popolazione, il 63 per cento della quale ritiene l’isola sovrana e indipendente. Anche se la richiesta di ammissione all’Onu non ha alcuna possibilità di essere accettata a causa del veto cinese, la consultazione è stata criticata dal Kmt,che ha invitato gli elettori a boicottarla, sostenendo come questa arrechi solo danni all’immagine ed alla posizione di Taiwan. Dello stesso tono sono state le reazioni di Pechino e di Washington, da tempo critica con Chen Shui–bian, per la quale il referendum sarebbe solo una provocazione per innalzare la tensione tra i due Paesi. I sondaggi danno per favorito il nazionalista Ma Ying–jeou, anche se gli osservatori ricordano come a Taiwan le rilevazioni siano state spesso contraddette e che gli eventi di questi giorni in Tibet potrebbero favorire proprio Hsieh e la sua linea critica verso la Cina Popolare.

 


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