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Tibet, è già troppo tardi
di
FEDERICO PUNZI

[20 mar 08] Probabilmente quanto doveva accadere in Tibet è già accaduto da un bel pezzo. Facile per Pechino soddisfare gli appelli a porre fine alla repressione, ora che non c'è più niente da reprimere. Il più è fatto e si ha il sospetto che l'ultimatum fosse poco più che un inganno per i tibetani e un diversivo per l'Occidente. Mentre tutti aspettavano la mezzanotte di lunedì (le 17 in Italia), il grosso delle retate si scatenava già tra sabato e domenica, come qualche immagine ha documentato. A meno di una settimana dall'inizio delle proteste, Pechino è già riuscita a rimettere sotto il suo tallone la testa dei tibetani, per di più al riparo da occhi indiscreti, assestando un colpo micidiale alla resistenza interna, che probabilmente non riuscirà a riorganizzarsi nei mesi, se non negli anni a venire. Segno che la lezione birmana i cinesi l'hanno imparata in fretta, mentre l'Occidente l'ha volutamente ignorata. Le uniche immagini trapelate sono quelle pubblicate lunedì dal sito Phayul.com, e successivamente anche da altri. Si vedono cadaveri con fori di proiettili, anche alla nuca. Nel segno della nonviolenza, il Dalai Lama invita di nuovo Pechino al dialogo, nonostante lo accusino di aver organizzato gli scontri e lo insultino definendolo “un lupo sotto le spoglie di un monaco”, e nonostante la Cina gli abbia dichiarato una vera e propria guerra: “Conduciamo una lotta senza quartiere contro la cricca del Dalai Lama”, ha affermato il numero due del Parito comunista tibetano, Zhang Qingli. Tra manifestazioni, appelli, dichiarazioni, è bene che non ci si faccia illusioni o che si dimentichino alcune cose.

Non sappiamo se il boicottaggio delle Olimpiadi sia realistico ed efficace, ma vorremmo sapere dai politici che lo escludono a priori quali sono, in concreto, gli altri strumenti di pressione di cui si dispone. Non si nascondano dietro la veste del Dalai Lama, che per evidenti ragioni di opportunità politica non potrebbe comunque incitare al boicottaggio delle Olimpiadi, ma magari si aspetta qualche gesto da parte dell'Occidente. Esigere che il regime cinese ponga fine alla repressione; che avvi un dialogo con il Dalai Lama sulle basi dell'autonomia e dei diritti del popolo e della cultura tibetana, quindi escludendo ogni minaccia alla sovranità e integrità territoriale della Cina; che apra le porte a una missione internazionale (Ue o Onu); che conceda libertà di circolazione ai media. Sono tutte richieste sacrosante, concrete, ragionevoli. E’ davvero il minimo che possiamo pretendere da Pechino, ma sarebbe già molto. Manca però la minaccia di una sanzione che ci renda credibili, che dimostri che facciamo sul serio. In concreto, se il governo cinese rispedisce al mittente queste proposte minime e ragionevoli, cosa rischia in termini politici? Sarebbe opportuno che i politici rispondessero a questa domanda, perché solo dalla risposta si può capire se ci stiamo prendendo in giro da soli, oppure se davvero c'è almeno la volontà di agire. Si è detto, per esempio, che lo sport non dovrebbe venire coinvolto da ciò che spetta alla politica risolvere. Giusto, ma allora perché ad agosto capi di Stato e di governo non se ne restano a casa, non accompagnando le federazioni sportive alle Olimpiadi? La loro presenza non sarebbe anche quella politica che invade lo sport? Non sarebbe di fatto una legittimazione politica alle politiche repressive di Pechino?

Ma il mondo dello sport non può neanche pensare di vivere in un altro pianeta. Ciò che accade in Cina riguarda eccome anche gli atleti e lo spirito stesso dello sport. E il rischio, sentendo i toni dimessi di questi giorni, è che, consapevoli o inconsapevoli, gli atleti, le federazioni e i governi occidentali si rendano strumenti di un'immensa operazione di propaganda nazionalista orchestrata dal regime cinese. Si può svolgere serenamente una competizione sportiva in uno stadio mentre tutto intorno la dignità umana viene calpestata? I Giochi, si dice, sono una grandissima occasione proprio per mettere al centro dell'attenzione mondiale il tema dei diritti umani in Cina e quindi anche del Tibet. Ecco, qui esprimiamo la certezza, purtroppo, che ad agosto tutti se ne saranno scordati e l'evento filerà via liscio secondo quanto programmato dalle autorità cinesi (anche perché non volerà una mosca in tutto il Paese), tutti con il naso all'insù ad ammirare le spettacolari coreografie o le prodezze degli atleti. Né possiamo dimenticare che in questi due anni molti politici hanno perso ogni credibilità per poterci venire a dire, oggi, quali siano le forme di pressione appropriate su Pechino e per esserne addirittura interpreti. Prodi e D'Alema, che hanno evitato con cura di incontrare il Dalai Lama, ad esempio; e tutti i ministri della missione in Cina del 2006, silenti mentre Prodi assicurava a Pechino il proprio appoggio per la revoca dell'embargo europeo sulle armi.

Chi al governo è stato artefice o complice passivo di questa miope politica ammetta di aver sbagliato o taccia. Prendiamo atto, infine, che l'Onu è inutile, se non dannosa; e che, boicottaggio o no, bisogna rivedere nel suo complesso la nostra politica cinese. E’ fallito un certo modo di intendere la strategia dell'engagement. Qui nessuno pensa di mettere in discussione l'apertura commerciale e i rapporti economici con la Cina. Sarebbero loro a isolarci, non noi a isolare loro. Libero commercio e sviluppo economico restano fattori e presupposti di cambiamenti politici, progressi nei diritti umani e rapporti pacifici tra le nazioni. Ma il caso cinese dimostra che non è sufficiente restare a guardare, come se gli sviluppi desiderati fossero automatici e inevitabili. Non è l'istanza moralistica dell'ingenuo idealista, ma puro realismo politico, perché del nazionalismo cinese oggi sono vittime i tibetani, ma un giorno potremmo esserne vittime anche noi.

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