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Minoranza greca in Turchia, un ostacolo verso l'Ue
di GIUSEPPE MANCINI

[20 mar 08] Sono rimasti in duemila. La comunità greca di Istanbul, fino agli anni Cinquanta e Sessanta formata da più di centomila persone e ancora fiorente, è oggi ridotta ai minimi termini. Non è bastata la visita a fine gennaio di Costas Karamanlis (la prima di un premier greco dopo quella dello zio Costantino nel 1959) a ridare speranza per un futuro che ha il sapore amaro dell’annientamento; né le imminenti ricorrenze del 25 marzo (l’inizio della guerra d’indipendenza della Grecia contro l’Impero ottomano) e della Pasqua ortodossa celebrate annualmente con festante orgoglio, potranno porre un freno al lungo esodo. Infatti, le scuole si svuotano sempre più, ormai frequentate anche dagli ortodossi turcofoni dell’Anatolia che non parlano una parola di greco: e la Megali Scholia, la “Grande scuola” (anche nelle dimensioni) costruita alla fine dell’Ottocento per ospitare più di mille studenti, ne conta solo una sessantina. E vuote e quasi sempre chiuse sono le numerosissime chiese della città: aperte solo in occasione delle festività, oppure passate alle comunità ortodosse degli immigrati dall’Europa dell’est. Persino nel pellegrinaggio di Ayios Georghios sull’isola di Büyükada nel mare di Marmara, il 23 aprile, la componente greco-ortodossa è ormai minoritaria, quasi irrilevante: ed è stata sostituita gradualmente dai musulmani che accorrono in massa.

I greci di Istanbul hanno abbandonato la città dopo i fatti del 1955 e del 1964: dopo le distruzioni di negozi e abitazioni nei quartieri europei di Pera e del Fener (dove sorge il Patriarcato ecumenico), con stupri e qualche raro omicidio, messe in atto da folle inferocite e senza che le autorità di polizia intervenissero. Il tutto provocato da turbolenze politiche e sociali interne, innescate dai contrasti tra Grecia e Turchia sul destino della comunità turca di Cipro. L’entità di queste distruzioni è ancora sotto gli occhi di tutti: in riva al Bosforo, le abitazioni dei greci fuggiti sono vuote, bruciacchiate, in alcuni casi interamente distrutte. Gli eventi del 1955 e del 1964, le grandi fughe, il lento e inesorabile esodo, tuttavia, possono essere compresi solo nel contesto più ampio di tutto il Ventesimo secolo: le guerre balcaniche del 1912-1913, la prima guerra mondiale, la guerra greco-turca del 1919-1923 e il cosiddetto “scambio di popolazioni” sancito con il trattato di Losanna del 24 luglio 1923.

Questo più ampio contesto storico è il fondale su cui si staglia la ricostruzione dell’eccellente libro di Bruce Clark, non ancora tradotto in italiano, Twice a Stranger. How Mass Expulsion Forged Modern Greece and Turkey (Harvard University Press, 2006; poi Granta Books, 2007). Clark, un giornalista di origini nord-irlandesi, ha il grande merito di aver condotto la sua ricerca su un duplice terreno: da una parte, gli eventi bellici e le trattative diplomatiche; dall’altra, le vicende e i traumi vissuti da alcuni individui rappresentativi che si sono trasferiti o in Grecia o in Anatolia, in tutto qualche milione di persone. Clark, inoltre, nella sua ricostruzione non si limita agli anni immediatamente successivi al 1923 per valutare le conseguenze del duplice esodo, svoltosi in condizioni infernali con migliaia di morti per fame ed epidemie. Prosegue la sua analisi e si sofferma anche sulle conseguenze di lungo periodo, riservando una particolare attenzione alle due eccezioni: i musulmani della Tracia occidentale e gli ortodossi di Istanbul, a cui fu permesso di rimanere nelle loro terre di origine. Eccezioni mal digerite, soprattutto dai turchi, che avrebbero voluto, sin dal 1923, espellere tutti gli ortodossi, senza eccezioni, Patriarca ecumenico compreso. La storia dei greci di Istanbul nella repubblica turca, dal 1923 a oggi, va letta quindi come un unico e incessante tentativo da parte delle autorità di Ankara, attraverso un’ostilità di fondo, restrizioni legali, qualche episodio cruento, di liberarsi per sempre di questa minoranza ingombrante, in passato troppo potente e ancora oggi legata alla logica di coabitazione e tolleranza propria dell’Impero ottomano. Per la Turchia, la strada verso l’Europa di Bruxelles è ancora molto lunga.

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