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Il genocidio dimenticato degli Uighur dello Xinjiang
di
BRUNO PAMPALONI

[19 mar 08] Le cronache riportano giustamente in primo piano la sempre più drammatica situazione del Tibet. Eppure, la popolare causa del Dalai Lama rischia di oscurare la meno nota ma non per questo meno dolorosa vicenda dei musulmani uighuri. Il governo di Pechino continua infatti a perseguitare anche questo gruppo etnico-religioso che abita lo Xinjiang (o Sinkiang o, anche, Turkestan Orientale), provincia autonoma situata ai confini nord occidentali della Cina e piuttosto ricca di petrolio. La tragedia degli uighuri testimonia una volta ancora come il Partito comunista non intenda lasciare spazio a forme di autodeterminazione svincolate da “gentili concessioni” della maggioranza cinese han. Soprattutto se tali rivendicazioni sono basate su un forte credo religioso. La repressione in Tibet e quella a “fari spenti” degli uighuri si spiegano anche con la necessità di evitare alle molte e potenziali “bombe etniche” localizzate ai confini dell’immenso territorio cinese di turbare la calma (pre)olimpica del Dragone. Insomma, visto che Pechino ha decretato il futuro successo delle Olimpiadi è bene non aspettarsi alcunché di diverso.

Il tempo è schierato con il governo centrale. Come diceva il vecchio Deng Xiao Ping, “quando la Cina dice una cosa, la dice sul serio”. Frase che, dei cinesi, spiega quasi tutto. Quindi, per l’occasione, meglio reprimere (al momento giusto) e censurare. Tanto più chi, come gli uighuri, non ha troppi santi o star hollywoodiane in Paradiso. In Cina, gli uighuri sono quasi sei milioni (l’intero Xinjiang ospita circa diciannove milioni di abitanti). Parlano la lingua turca e sono pressoché tutti di fede musulmana. Altri 500mila vivono sparsi in Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kirghizistan, Pakistan e Afghanistan, senza contare la piccola diaspora in Arabia Saudita, Turchia, Europa Occidentale e Stati Uniti. Gli uighuri musulmani dello Xinjiang si battono contro il governo centrale per ottenere una qualche forma di autonomia. Nel 2002 Pechino ha inviato da quelle parti una forza di 80mila uomini, composta da soldati e poliziotti, appoggiata da mezzi blindati e aerei per reprimere le rivolte messe in atto dagli indipendentisti. Le fucilazioni di “violenti criminali terroristi”, imputati di omicidio e separatismo, sono diventate una pratica costante.

Già nel 2005 un rapporto di Human Rights Watch (basato su documenti ufficiali del Partito comunista cinese e su denunce della pubblica sicurezza operante nella zona) certificava come il governo centrale soffocasse le espressioni religiose e  le istanze democratiche degli uighuri. Tanto per intenderci: oltre a venir loro impedita una predicazione regolare, gli imam ancora oggi sono costretti a intere “sessioni di auto-critica”. Le moschee sono sottoposte alla vigilanza della polizia, gli insegnanti che manifestano il loro credo vengono allontanati dalle scuole e la censura di regime si accanisce contro poeti o scrittori che trattano temi legati alla religione. Inoltre alla popolazione non è consentito “studiare o portare sotto braccio libri religiosi e indossare simboli che rivelino l’appartenenza alla fede islamica” , mentre i “genitori o i tutori legali” devono “impedire ai minori posti sotto la loro custodia l'esercizio di qualsiasi pratica religiosa”.

Secondo quanto riferito dai capi uighuri, il governo centrale avrebbe attuato una colonizzazione forzata delle terre musulmane.  In effetti, in dieci anni, Pechino ha inviato  nella regione più di un milione di contadini provenienti da ogni parte del Paese. I nuovi coloni hanno iniziato a stravolgere le abitudini e le libertà di cui godeva la minoranza musulmana.  La lotta degli uighuri ha avuto origine nella prima metà del secolo Ventesimo: nel 1933, poi ancora nel 1944 e nel 1949 essi hanno combattuto per ottenere l’indipendenza. Ma i loro tentativi furono soffocati duramente dalle repressioni sovietiche e, successivamente, da quelle messe in pratica dall’esercito comunista cinese. Ad Alma Ata, in Kazakistan, si trova il Comitato del Turkestan Orientale, l’organo politico cui l’etnia uighura fa riferimento. Si tratta del più antico movimento indipendentista dell’Asia centrale. Rebiya Kadeer (candidata al premio Nobel per la pace nel 2006) è il simbolo della lotta della minoranza musulmana dello Xinjiang. Dopo aver trascorso oltre 5 anni nelle carceri cinesi, dal 2005 vive esiliata negli Stati Uniti. Rebiya Kadeer continua a battersi anche per i diritti delle 240mila donne uighure deportate dallo Xinjiang e costrette a lavorare in fabbriche lontane.

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