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I politici italiani troppo cauti sul Tibet
di
DOMENICO NASO

[19 mar 08] Ci voleva il terribile dramma tibetano per svegliare i nostri politici, anche se per poco, dal torpore di una stagnante campagna elettorale. Esponenti di ogni coalizione o partito hanno detto la loro sulla situazione a Lhasa e sulla cruenta repressione cinese delle manifestazioni di protesta. L’evolversi degli eventi in Tibet, quel lontano e fascinoso altopiano dall’altissimo valore simbolico e culturale, visto dall’Italia, attraverso il provvidenziale aiuto dei lanci di agenzia, assume una luce diversa, un chiaroscuro tutto da analizzare. Sincere posizioni democratiche, piccole ipocrisie di bottega, frasi di circostanza dette svogliatamente, richieste di reazioni dure e significative e a volte, purtroppo, completa indifferenza.

A smuovere le acque ci avevano pensato Radio Radicale e il quotidiano il Riformista, promotori di una manifestazione che proprio oggi riempirà Campo de’ Fiori al grido di “Siamo tutti tibetani”, e alla quale ha aderito anche la nostra redazione. Antonio Polito, presentando l’evento sulle colonne del Riformista di lunedì, ha lanciato un duro j’accuse nei confronti di chi non sembra particolarmente interessato alle vicende tibetane, fornendo una classificazione azzeccatta: “Siamo tutti tibetani, dunque. Ma è vero? Certamente no, altrimenti non ci sarebbe bisogno di andarlo a dire in una piazza. […] Tra di noi, per esempio, ci sono molti “cinesi”, persone per bene che però non vogliono guai, che sanno che la Cina è già una superpotenza. Che pensano che i nostri commerci e i nostri affari richiedono discrezione e prudenza. O che semplicemente hanno paura di rompere le scatole in difesa di un piccolo popolo che, in fin dei conti, è un affare interno cinese. Poi ci sono gli “anti-americani”, quelli che sarebbero pronti a tutto in nome di tutti i popoli angariati dall’altra e più cattiva superpotenza; ma non muovono un dito se non c’è l’occasione di bruciare una bandiera a stelle e strisc”e. E’ difficile dare torto al senatore uscente della Margherita. E forse anche le sue parole hanno contribuito a provocare quella ridda di dichiarazioni che ha fatto compagnia a chi, come noi, ha trascorso il pomeriggio di ieri seguendo le agenzie.

Veltroni e Berlusconi, per carità, hanno altro da fare. Bertinotti e Casini, idem con patate. I quattro maggiori candidati alla guida del Paese non hanno ancora trovato il tempo per prendere una posizione chiara, a parte una svogliata dichiarazione di Veltroni che chiede la fine delle violenze e boccia l'idea del boicottaggio dei Giochi. Poco di più ha fatto D’Alema, ministro degli Esteri in carica e quindi costretto, suo malgrado, a intervenire. Il titolare della Farnesina ci ha informato che “la situazione in Tibet è grave” e, riferendosi all’opportunità o meno di boicottare le Olimpiadi di Pechino, ha affermato che “se noi cancellassimo i Giochi Olimpici correremmo soltanto il rischio di far tornare in ombra la situazione della Cina”. Ma è alla fine che Massimo D’Alema ci regala la dichiarazione più discutibile: “Lo spirito non deve esse quello dell’ostilità nei confronti della Cina ma quello di un’apertura a Pechino, però condizionata”. Negli ultimi anni ci sembra che di aperture ce ne siano state fin troppe e i risultati, purtroppo, sono quelli che ci troviamo a commentare. Più tempestivo l'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha chiesto un'azione urgente dell'Unione europea per far fronte alla drammatica situazione tibetana.

Finisce qua il contributo alla discussione proveniente dai leader più importanti della politica italiana. Il tourbillon di dichiarazioni e adesioni alla manifestazione è opera delle seconde e terze linee delle truppe politiche in assetto elettorale. Gianni Vernetti (Pd), sottosegretario agli Esteri, ha incontrato Sun Yuxi, ambasciatore cinese in Italia, al quale ha chiesto di “evitare l’uso della forza” (peccato che ci siano già centinaia di morti per le strade di Lhasa) ma si è rivolto anche (con una punta di strisciante veltronismo) ai dimostranti, “affinché si astengano a loro volta da atti di violenza” (sic). Giovanna Melandri (Pd), ministro dello Sport, ha ricalcato fedelmente la linea cauta del Partito democratico, appellandosi in maniera piuttosto vaga al “dialogo”, pur chiedendo (e come avrebbe potuto evitarlo?) la fine immediata delle violenze cinesi. Si discosta un po’ dalla tiepida condotta del suo partito solo Barbara Pollastrini, ministro per le Pari opportunità. Nella nota con cui aderisce alla fiaccolata silenziosa organizzata ieri da Cgil, Cisl e Uil, il ministro sottolinea che “nel nostro Paese sta crescendo un movimento delle coscienze perché il tema dei diritti umani sia centrale nell’agenda della politica”. Giusto e sacrosanto. Peccato, però, che i leader politici (tra cui Veltroni, candidato premier della stessa Pollastrini) non sentano la necessità di trasformare queste buone intenzioni in atti concreti e utili.

Più decisa la partecipazione al dibattito nelle file del centrodestra. Molti, nel Popolo della libertà, hanno chiesto il boicottaggio dei Giochi Olimpici di Pechino e per la verità sono gli esponenti di An a fare la parte del leone, ribadendo peraltro posizioni già espresse in tempi non sospetti. Gasparri e Mantovano, due colonnelli del partito di Gianfranco Fini, hanno chiesto una riflessione in merito alla partecipazione italiana alle Olimpiadi. Intanto fioccano bipartisan le adesioni alla manifestazione di Campo de’ Fiori: Cicchitto, Quagliariello, gli stessi Gasparri e Mantovano, la coordinatrice nazionale dei giovani di Forza Italia Beatrice Lorenzin. Tutti in piazza per protestare contro le violente repressioni cinesi. E forse, in fondo, ha ragione il leghista Roberto Cota quando afferma che “quando la Lega Nord denunciava che in Cina venivano sistematicamente calpestati i diritti umani, il duo Veltroni-Prodi preferiva sbandierare l’idea che la Cina era una opportunità”.

Come sempre, sono i Radicali a distinguersi su temi a loro particolarmente cari. Sergio D’Elia, deputato della Rosa nel Pugno e segretario di Nessuno tocchi Caino, è addirittura rientrato in anticipo da Dharamsala (sede dell’esilio indiano del Dalai Lama), dove l’esponente radicale stava partecipando alla marcia di sei mesi che avrebbe dovuto condurre migliaia di persone a Lhasa, per partecipare alla riunione della commissione Esteri della Camera. E rilancia la questione cinese allargando l’allarme ad altre regioni del Paese asiatico: “Ritengo urgente che il Parlamento italiano trovi il modo di discutere quanto sta avvenendo in Tibet ed anche in altre regioni cinesi, dove pure si consumano gravi violazioni dei diritti umani, come nei confronti degli uiguri del Turkestan orientale”. Bruno Mellano, altro deputato radicale, ha invece ripreso il concetto di “genocidio culturale” lanciato lunedì dal Dalai Lama, parlando di “genocidio per diluizione”, visto che la strategia di Pechino in Tibet è da sempre quella della “cinesizzazione” attraverso flussi costanti e corposi di immigrati cinesi, ormai maggioranza della popolazione.

Fuori dai principali schieramenti, c’è poco spazio di tribuna anche su argomenti del genere. Ha fatto eccezione Stefano De Luca, segretario nazionale del Partito Liberale Italiano, promotore di una provocazione piuttosto interessante. Niente Olimpiadi di Pechino, ma “una manifestazione parallela nel mondo libero”. Una sorta di controolimpiade, dunque, magari da far svolgere in nazioni dall’alto valore simbolico, quali Taiwan o Israele. Decisamente interessante, se confermata, è la notizia diffusa da Daniela Santanché, candidato premier de La Destra, secondo la quale otto atleti italiani sarebbero pronti a boicottare i Giochi Olimpici. Fin qui le dichiarazioni dei politici italiani. Chissà se a queste seguiranno fatti concreti o se, invece, il flusso anestetizzante della campagna elettorale porterà via anche questo barlume di civiltà, in un Paese ormai troppo abituato a non guardare oltre i suoi confini.


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