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Il maglio vessatorio della carcerazione preventiva
di
ENRICO GAGLIARDI

[14 mar 08] La cronaca giudiziaria che ogni giorno i mezzi di comunicazione portano alla nostra attenzione dimostra in maniera inequivocabile due dati: il primo di carattere più generale, che la giustizia penale è in grandissima crisi; il secondo, che del primo è una “sottospecie”, dimostra come in Italia esista una giustizia al contrario, che si muove secondo logiche antitetiche rispetto al normale corso delle cose. Il caso dei fratellini di Gravina è un chiarissimo esempio di questa giustizia alla rovescia; subito dopo la loro scomparsa le accuse sono ricadute sul padre che in poco tempo è stato arrestato, subendo un provvedimento di custodia cautelare in carcere, da cui è uscito solo in questi giorni nonostante le indagini abbiamo subito una decisiva svolta dopo il tragico ritrovamento dei due bambini. Tralasciando per un momento gli eventuali sbocchi processuali che avrà la vicenda, resta un dato allarmante, e cioè un uso almeno eccessivo dello strumento cautelare. Il medesimo discorso potrebbe essere fatto per altre situazioni diametralmente opposte al caso di Gravina: per esempio per i grandi crack finanziari che hanno coinvolto il nostro Paese negli ultimi tempi. In entrambe le circostanze (ci si riferisce ai casi Cirio e Parmalat), i principali imputati hanno subito pesanti situazioni di carcerazione preventiva ed ora rischiano di restare impuniti per l’avvicinarsi incombente dei termini di prescrizione.

Appare dunque fin troppo facile tracciare un quadro giuridico-processuale come quello italiano nel quale la sanzione è anticipata al momento cautelare e non, come dovrebbe essere, alla fase successiva la condanna definitiva. Una stortura drammatica che non può non avere ricadute anche in termini di equità. Ancora una volta i numeri fotografano una situazione disastrosa meglio di qualsiasi altro discorso: i dati, solo per quello che riguarda il Tribunale di Roma (fonte Radio Carcere), sono lampanti: a fronte di un totale di 5129 misure cautelari, colpisce il numero bassissimo di sentenze di condanna emesse dal tribunale penale in composizione collegiale, cioè poco meno di 1000. La conclusione è facilmente intuibile. Il nostro codice di procedura penale (tra le altre cose recentemente riformato) prevede l’esistenza delle misure cautelari, e cioè quelle misure con le quali possono essere limitate le libertà personali, e le inserisce nel Libro IV agli articoli 272 e seguenti. Premessa di tali misure sono “i gravi indizi di colpevolezza” previsti dall’art. 272. Questo genere di atti comunque sono “emanabili” sulla base di alcune precise indicazioni: a)[…]in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova; b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione; c) quando[…] sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti o della stessa specie di quello per il quale si procede.

Il codice di rito nelle disposizioni successive si occupa di limitare in senso restrittivo la possibilità di erogare misure di questo tipo, prevedendo comunque una serie di passaggi e controlli molto dettagliati. Questa, dunque, la base normativa dalla quale partire: purtroppo però nel nostro sistema-giustizia assistiamo in molti casi ad uno scollamento tra quella che dovrebbe essere la situazione ideale e quella che è invece la triste realtà dei fatti: in altri termini, in molte procure della Repubblica la custodia cautelare da strumento eccezionale si è via via trasformato in una sorta di maglio vessatorio incombente sul singolo, nella sua stessa potenzialità di espansione; è quindi spiacevole che una misura cautelare sia troppo spesso emanata con leggerezza, quasi fosse una parte fondamentale di strategia processuale invece di una garanzia a tutela di altri beni giuridici fondamentali. Non bisogna poi dimenticare un elemento fondamentale: l’art 27 della nostra Costituzione, che al secondo comma stabilisce la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva. Dunque, la custodia cautelare rappresenta una privazione della libertà personale senza una giudicato definitivo, senza che tale privazione sia giustificata da un provvedimento di colpevolezza accertata.

In uno Stato di diritto, una misura del genere dovrebbe essere limitata solo ai casi strettamente necessari e, di fatto, la Carta Fondamentale tenta di arginare rimandando però i limiti della custodia cautelare alla legge ordinaria. Ed è proprio sulla legge ordinaria che occorre intervenire immediatamente per rendere meno frequenti le condizioni di applicabilità della custodia cautelare in carcere. In che modo? Per esempio sostituendo per alcuni casi la custodia cautelare con altri mezzi di detenzione alternativa. Infatti, mentre appare logica l’ipotesi di una carcerazione per quello che riguarda il pericolo di reiterazione del reato, sembra inutile la medesima condizione per le altre due ipotesi e cioè il pericolo di fuga e di inquinamento delle prove poiché lo stesso risultato (quello di impedire avvenimenti del genere) potrebbe essere ottenuto con forme alternative. Ad esempio con una detenzione domiciliare. In questo modo, inoltre, si otterrebbero due obiettivi fondamentali: quello di tutelare nel modo più ampio possibile il principio di non colpevolezza e quello di evitare in tutti modi un inutile sovraffollamento della carceri che già scoppiano, nel vero senso del termine. Un altro passo da compiere nel più breve tempo possibile sarebbe quello di creare strutture carcerarie differenti per coloro i quali vengono sottoposti a misure di custodia cautelare, proprio perché nella maggior parte dei casi chi subisce provvedimenti del genere non è abituato alla vita di galera. Ancora una volta, dunque, si dimostra sempre più pressante una riforma del processo penale, formalmente di tipo accusatorio ma sempre di più marcatamente inquisitorio in senso sostanziale.


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