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Thailandia, il ritorno dell'uomo della provvidenza
di ENZO REALE

[06 mar 08] Al suo arrivo giovedì scorso all’aeroporto di Bangkok erano in tremila a scandirne il nome chiedendogli di non mollare. L’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra ha scelto un ritorno trionfale dopo un anno e mezzo di volontario e dorato esilio seguito al colpo di Stato militare che nel 2006 lo aveva deposto. Come un re fattosi da parte per il bene dei suoi sudditi ma pronto a riprendere in mano le sorti del Paese al momento opportuno, appena sceso dall’aereo Thaksin ha baciato il suolo thailandese, in un gesto plateale che nulla aveva di improvvisato. Ufficialmente in patria per difendersi dagli addebiti di corruzione e conflitto di interessi diretti contro di lui dopo il golpe, l’attuale presidente del Manchester City ha recitato davanti ai giornalisti la parte della vittima di una persecuzione giudiziaria, precisando di non avere nessuna intenzione di rientrare nell’agone politico: “Sono qui per vivere e morire come un normale cittadino”, sono state le sue prime parole. Pochi però sono disposti a credere a questa dichiarazione d’intenti e quasi tutti vedono già nel rimpatrio il materializzarsi di una nuova tappa della sua controversa carriera istituzionale.

 

Il pronunciamento militare che portò i carri armati nelle strade di Bangkok fu giustificato principalmente con accuse di malversazione e di vilipendio alla monarchia; il partito dell’ex premier – Thai Rak Thai Party (Trt - I Thailandesi Amano il Partito dei Thailandesi) - venne sciolto e 110 dei suoi membri interdetti dalla vita politica per i cinque anni successivi. Dietro alla defenestrazione – spiegano gli osservatori – c’era soprattutto la frustrazione delle élites urbane di fronte alle politiche a favore dei ceti rurali promosse dal governo di Thaksin e rivelatesi essenziali per garantire all’esecutivo un permanente serbatoio di consensi tra le classi sociali più umili del Paese. “E’ stato fatto fuori perché ha dato voce al popolo”, hanno sempre rivendicato i suoi sostenitori. In realtà la situazione è un po’ più complessa. Da un lato è vero che la performance dei due governi del Trt è stata piuttosto brillante sul fronte della riduzione della povertà, con un dimezzamento della percentuale di indigenti in un momento di crescita economica complessiva inferiore a quella del decennio anteriore. Ma allo stesso tempo l’era Thaksin si è caratterizzata per una predicazione radicale temperata da un pragmatismo di fondo.

E’ difficile d’altronde pensare che un uomo d’affari con forti interessi nel settore delle telecomunicazioni e della proprietà immobiliare potesse permettersi di inimicarsi davvero i circoli finanziari più influenti e l’intera classe dirigente del Paese: nei fatti la sua gestione si è nutrita di una confusa ideologia di stampo vagamente peronista, alimentata da un populismo anti-monarchico che preservava gli interessi delle classi dominanti (capitalismo finanziario, burocrazia ed esercito) nel momento stesso in cui dichiarava di volerli combattere. Non è un caso che, mentre il risultato delle elezioni dello scorso dicembre premiava il partito dei fedelissimi di Thaksin (la nuova formazione del Partito del Potere del Popolo – Ppp) con un’ampia maggioranza, la casta dei militari accettasse di scivolare dietro le quinte senza ulteriori colpi di coda. E’ stato come assistere ad una sorta di capovolgimento del promoveatur ut amoveatur di latina memoria: la rimozione forzata dell’esecutivo Thaksin pre-golpe ha spianato la strada al consolidamento di quello post-golpe, il tutto in nome del mantenimento di quei privilegi di casta inconfessati e trasversali alle élites al potere, indipendentemente dalla loro propensione politica del momento.

Appena nominato, il neo-premier Samak Sundaravej, a capo di una coalizione formata da Ppp e altri cinque schieramenti minori, non ha avuto tentennamenti nel riconoscere che attraverso di lui Thaksin avrebbe governato per procura. Adesso che l’uomo della provvidenza è ritornato l’incognita più grande resta proprio quella di sapere se continuerà a muovere i fili della politica thailandese dalle retrovie, attraverso i suoi prestanome, o se interverrà direttamente nelle decisioni dopo aver risolto i suoi problemi giudiziari. E la sorpresa potrebbe venire proprio da Samak che, nel corso di un colloquio con l’inviato statunitense Christopher Hill mantenuto il giorno dopo la rentrée del boss, ha smentito se stesso facendo sapere che la responsabilità del governo in carica ricade interamente sulle sue spalle e che la presenza di Thaksin non cambierà nulla. Anche se è improbabile a questo punto uno scontro fra premier in carica e premier ombra, l’autonomia decisionale di Samak dovrà fare i conti soprattutto con la necessità di garantire una adeguata gestione dell’economia, lo snodo cruciale attorno a cui si gioca la popolarità del partito di governo. Lo scenario più prevedibile è quello di una gestione concertata della cosa pubblica in vista di un passaggio di consegne la cui tempistica dipende dalla rapidità con cui Thaksin riuscirà a ripulire la propria immagine davanti alla giustizia e a recuperare i suoi assets finanziari e dalla modifica delle leggi per permettere la sua rielezione. “Il padre è tornato a casa e i bambini sono felici”, gridavano i Thaksin-boys all’atterraggio del miliardario più amato dalla povera gente. Nei prossimi mesi la Thailandia conoscerà il prezzo esatto di tutta questa gioia.



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