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[05 mar 08] Marc Sageman, sociologo ed ex agente della Cia in Afghanistan tra il 1987 e il 1989 e in India dal 1989 al 1991, è ora senior fellow del Foreign Policy Research Institute. E’ appena uscito il suo ultimo libro Leaderless Jihad che contiene, con Understanding Terror Networks (2004), una analisi di quattrocento biografie di terroristi di Al Qaeda e dello stato della rete internazionale post 11 settembre. Dopo aver lasciato la Cia e completato gli studi in medicina, Marc Sageman lavora oggi come psichiatra criminale, e con la sua esperienza sul campo e competenza specialistica traccia un ritratto dell’evoluzione del fenomeno della affiliazione e dell’azione terroristica islamica nel Ventunesimo secolo.
La sua analisi
del terrorismo è molto diversa dalle teorie più diffuse. Lei sostiene che la
spinta di una persona verso l’azione terrorista non vada cercata
nell’instabilità personale, nell’influenza di cattive madrasse o nel fattore
povertà. Qual è il suo punto di vista?
Se si
studiano i terroristi come soggetti individuali, quello che va analizzato è
il loro background sociale. Solitamente provengono dalla middle class, con
educazione laica, genitori laici, istruzione medio-alta. Circa il 62 per
cento della media internazionale compie studi universitari. E la maggior
parte di loro ha studiato scienze naturali o ingegneria. E se si considera
la tipologia degli arrestati ci si rende conto che meno del 10 per cento di
loro ha dei precedenti penali. Sono generalmente in buona salute, spesso
sposati con figli. E’ gente normale fino a quando non le si attribuisce la
definizione di terroristi.
Dunque la
religione non ha più nessun ruolo nella formazione di un terrorista?
Ci
sono diverse ondate di cambiamento e Al Qaeda cambia strategia ogni volta.
Nelle prime due, prima dell’11 settembre, la religione è stata più
determinante, soprattutto perché erano coinvolti più intellettuali. Dopo il
crollo delle Twin Towers, e specialmente dopo l’invasione dell’Iraq del
2003, non ci sono più stati intellettuali né studiosi tra i personaggi
arrestati, ma persone che pensano alla religione come un insieme vuoto di
concetti messi nero su bianco. Questo mi fa pensare che la religione non sia
più un fattore motivante così importante.
Secondo le sue
ricerche la rete del terrorismo internazionale sembra essere diventata una
rete di jihadisti “freelance”, secondo l’espressione usata dall’Economist
nella recensione del suo libro.
E’ una
definizione sintetica accettabile della mia tesi. Ma ho usato la parola
leaderless per descrivere una situazione in cui le giovani generazioni
non hanno più una connessione diretta con una leadership tradizionale. Di
conseguenza essi cercano di anticipare quello che la leadership potrebbe
volere da loro e agiscono nel suo nome, al quale si ispirano anche se non
sanno se la loro azione verrà accettata o meno.
Ma si ispirano
comunque all’ideologia di guerra tradizionale di Al Qaeda?
No.
Agiscono secondo un personale concetto di guerra tradizionale, che potrebbe
essere sbagliato. E proveranno più azioni per vedere poi se Al Qaeda le
accetterà o meno. E’ molto diverso rispetto a prima dell’11 settembre,
quando esistevano i campi di addestramento in Afghanistan e a comandare e
controllare era la centrale di Al Qaeda. Ora sta a loro decidere quello che
Al Qaeda potrebbe volere. Al momento, i giovani che vogliono entrare nella
rete si trovano senza una guida.
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