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Ricordo di Bucley Jr, padre dei moderni conservatori
di GIAMPIERO RICCI

[04 mar 08] La recente scomparsa dell’ultraottuagenario William Franck Buckley Junior ha pizzicato le corde dell’emozione di tanta parte del movimento conservatore non solo americano.  Scompare infatti il padre della National Review, dalle cui colonne prese corpo la filosofia politica che caratterizzò la rinnovata alleanza tra libertarian, neocon, destra nazionalista e christian coalition, le quattro anime portanti della galassia multicolore del Grand Old Party, un pensiero politico poi passato alla storia come “fusionismo” . Nessuno meglio di lui impersonò quella stagione americana, una stagione che pose le basi per la riscossa di un conservatorismo divenuto finalmente capace di formulare una visione del mondo coerente e autorevole eppure alternativa al mondo accademico liberal. E Buckley Jr., con una irriverenza divenuta proverbiale, con una scorrettezza che doveva poi diventare uno stile, divenne maestro nel procacciar battaglia contro l’imperante morale liberal, riuscendo con il suo giornalismo e la sua letteratura, la sua capacità di padroneggiare i media, televisione compresa, a dare dignità a quel pensiero alternativo ai vari collettivismi di sinistra, prima di lui ridotto ad una macchietta.

Agilità intellettuale, competenza, grazia, versatilità, savoir faire. Un uomo rinascimentale, così gli sarebbe piaciuto essere definito e così descrisse la sua prospettiva di ricerca professionale e personale in un discorso del 1986: “Un uomo rinascimentale è qualcuno che china la testa davanti alle grandi e immutabili verità e pur ammettendo e anche incoraggiando tutti i progressi della scienza, tuttavia, conosce abbastanza per sapere che non esisterà mai computer né ora, né mai, che avrà il potere di abrogare le formule alla base della civiltà.” In pochi hanno rimarcato i meriti letterari di Buckley Jr, adombrati come sono dalla influenza della sua carriere giornalistica. I saggi contenuti in Miles Gone By: A Literary Autobiography (Regnery Publishing, 2005) sono pura letteratura che nasce da una maestria ampia e profonda nella gestione della parola. The Unmaking of a Mayor (Vindication Edition, 1977) resta uno scritto politico abbagliante per comprendere la politica americana, un libro dove si racconta la sua corsa per la carica di sindaco di New York allorché divenne chiaro che Lindsay sarebbe stato il candidato del partito dell’asinello come di quello dell’elefantino, con la quasi certezza di una sua rielezione.

Buckley cominciò scrivendo pezzi di fuoco sulla necessità, ancorché puramente formale, della presenza di un rappresentante repubblicano serio che garantisse un’altra voce, finendo poi lui stesso per venire chiamato a competere. Esilarante la descrizione della sua criminalizzazione da parte dei media, ma il libro è in assoluto tra i più divertenti racconti di storie politiche americane mai scritti. Il meglio della produzione letteraria è rappresentato invece da Stained Glass, il secondo romanzo della serie della superspia Blackford Oakes, dove nel pieno della Guerra Fredda, Oakes si prende un periodo sabbatico per andare in Germania a partecipare al recupero della finestra di una cappella danneggiata durante la guerra e finisce invece tra le braccia di una bellissima agente del Kgb: un romanzo che potrebbe aver tranquillamente scritto Le Carré. Le idee, lo spirito di questi libri hanno animato e continuano ad animare la National Review e, di fatto, negli anni hanno soppiantato la retorica del New Deal roosveltiano, il blocco sindacale, il collettivismo pletorico. Buckley Jr agitava la bandiera del liberal-conservatorismo in anni in cui ancora non esisteva l’influenza e il prestigio di think tank liberali e conservatori come il Cato Institute, l’Americans for Tax Reform, l’Heritage Foundation o l’American Enterprise Insitute. Erano gli anni in cui era opera titanica provare a sconfiggere l’ostilità del mondo accademico e dei media, tutti schierati con i liberal. Per i festeggiamenti del trentennale della National Review, davanti ad un pubblico dove sedeva Ronald Reagan, Buckley Jr raccontò di una conversazione tra lui e Whittaker Chambers, l’ex spia sovietica autore di The Witness (1952), tormentato dalla necessità di comunicare all’America la reale portata del pericolo comunista.

“[Chambers] mi disse: l'Occidente è finito, al punto che ogni tentativo di salvarlo è destinato al fallimento. Getto questa macchia d'inchiostro sul colore bianco da sposa che rappresenta per me questa serata e lo faccio con sobrietà, solamente per far capire che siamo ancora molto lontani dal poter affermare con sicurezza che Whittaker Chambers sbagliava. Ma quella notte, di fronte al suo pessimismo, gli dissi che se fosse stato così, se la provvidenza aveva decretato la fine della nostra libertà, la Repubblica avrebbe meritato una rivista che sostenesse il caso storico e morale della sua sopravvivenza: per far pesare l'alternativa, perché la cultura della libertà merita di sopravvivere. In modo che, anche se fosse accaduto il peggio, il giornale avrebbe potuto servire, per così dire, come i diari di Anna Frank, come assoluto, come prova che lei avrebbe dovuto sopravvivere, al posto dei suoi aguzzini che, in ultima analisi, perirono”. “Avevo diciannove anni quando la bomba fu sganciata su Hiroshima, e la settimana scorsa ne ho compiuti sessanta. In questo intervallo di tempo ho vissuto come un uomo libero in un Paese libero e sovrano. [Signor Presidente,] Prego affinché mio figlio, quando avrà anche lui sessanta anni, e suo figlio, quando anch’egli ne avrà sessanta, e i figli e le figlie dei nostri ospiti di questa sera, vivano in un mondo privo del grande male che ha segnato il nostro secolo. Godendo della loro libertà, essi saranno grati ai loro padri per il coraggio dimostrato in momenti difficili”. W. F. Buckley ci lascia con questo spirito e con questo invito, destinato a rinnovarsi di generazione in generazione verso tutti gli uomini e le donne di buona volontà perché non smettano mai di trovare il coraggio di “mettersi di traverso alla storia e urlare stop”. Come scrisse nel primo editoriale della National Review apparso nell’oramai lontano 19 novembre del 1955.



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