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Birmania, non si muore mai abbastanza per il regime

di ENZO REALE

[08 mag 08] Quando il cielo è crollato la Birmania dormiva. Nessuno aveva avvisato che la pioggia delle prime ore della sera si sarebbe presto trasformata in un immane disastro naturale e umanitario. Nessuno aveva spiegato che un vortice d’acqua e di vento sarebbe stato capace di cancellare dalla faccia della terra una miriade di villaggi sul delta dell’Irrawaddy, di ridurre Rangoon e la sua periferia ad un cumulo di rovine e di trascinare con sé decine di migliaia di anime perse. Eppure i motivi di allarme non mancavano a dar retta ai bollettini emessi dalla Marina e dall’Aviazione statunitensi fin dal 29 aprile, tre giorni prima della tragedia, e ripresi da alcuni siti Internet specializzati: “una violenta tempesta ciclonica” denominata Nargis si sarebbe abbattuta sul territorio della Birmania sudoccidentale nella mattinata del 2 maggio per dirigersi poi nella zona dell’ex capitale. Sebbene l’intensità della perturbazione fosse sottostimata (categoria 2) vi erano segnali sufficienti per far scattare misure di prevenzione dal momento che nel comunicato si annunciavano onde anomale fino a 2,5 metri oltre il livello normale e considerevoli danni ad edifici e vegetazione. Non è tutto: l’agenzia meteo indiana rivela di aver informato con una settimana di anticipo le autorità birmane della forza d’urto della tempesta che si andava formando. Ma l'entità della distruzione è stata determinata da un insieme di fattori di diversa natura: da una parte la noncuranza criminale di chi avrebbe dovuto predisporre misure di prevenzione ed evacuazione, dall’altra le particolari caratteristiche della zona colpita che hanno favorito la formazione di veri e propri muri d’acqua e soprattutto lo stato decrepito delle infrastrutture in un Paese paralizzato nel tempo.

A Hla Putta, la prima area densamente popolata ad essere raggiunta dal ciclone, oggi non è rimasto in piedi quasi nulla: “Il 95 per cento della città è stato distrutto - riferisce un testimone alla rivista dell’esilio Irrawaddy - ci sono cadaveri ovunque. I sopravvissuti non hanno né cibo né acqua. Saranno i prossimi a morire”. Non esistono foto della devastazione fatte salve poche immagini, sempre le stesse, che giungono da Rangoon. Il Paese era già tagliato fuori dal mondo per scelta politica dei suoi dirigenti, adesso lo è anche fisicamente e la reale portata della catastrofe probabilmente non si conoscerà mai. Bogalay, Phyar Pone, Day Da Yel, Mawlamyaing sono nomi che nessuno ha mai pronunciato e che torneranno nell’oblio appena passata la commozione di rito. Oggi però sono i luoghi di questa Pompei d’acqua e fango in cui i corpi continuano a galleggiare in attesa che qualcuno venga a riprenderseli. Solo a Bogalay i morti sono diecimila, il bilancio più pesante stimato fino ad oggi. Dan River della Cnn, unico giornalista occidentale giunto sul posto non si sa bene come, descrive scene apocalittiche di cadaveri gettati nei fiumi e di abitazioni completamente rase al suolo. Poi ci sono i villaggi senza nome, dove non si arriva nemmeno quando c’è il sole, dove le case sono capanne di bambù o palafitte, che basta uno scirocco a far tremare, figuriamoci un mostro come il Nargis.

La Birmania vive di superstizione e in tanti avranno visto nel ciclone una punizione divina per l’ostinazione della giunta militare al potere nel condurre il Paese in un vicolo cieco di oppressione e decadenza. Il problema però è che la furia degli elementi ha spazzato via la povera gente, non i generali asserragliati a Naypyidaw. Già, dove sono Than Shwe e i suoi fedelissimi nelle ore disperate che si stanno vivendo? Può uno Stato fallito e dichiaratamente nemico dei propri cittadini prendersi cura di loro nelle situazioni di emergenza? Non c’erano soldati nelle strade di Rangoon dopo il passaggio del ciclone. Lo stesso esercito che lo scorso settembre era sceso in piazza a sparare contro i manifestanti, stavolta è rimasto a lungo chiuso nelle caserme, al riparo dalle intemperie. Sono stati i monaci, principali vittime della repressione, a farsi carico dei primi soccorsi alla popolazione e dei lavori di sgombero. Nel frattempo le immagini della televisione di Stato ritraevano un consiglio dei ministri improvvisato in cui ufficiali in uniforme fingevano di prendere appunti sulle istruzioni del premier Thein Sein, immortalato poi insieme ad altri suoi colleghi in cerimonie pubbliche di offerte di donativi.

Ma ormai sono passati sei giorni e al di là della propaganda è sul problema degli aiuti umanitari che si misura la natura fraudolenta del regime. Con centinaia di migliaia di senzatetto e vaste zone del Paese prive di cibo e di acqua potabile, l’emergenza civile diventa subito sanitaria e la lotta per la sopravvivenza una corsa contro il tempo che i militari rallentano, prolungando l’agonia della popolazione. Nonostante le dichiarazioni formali di apertura agli aiuti internazionali, accolte con prematuro entusiasmo dalle organizzazioni di assistenza, nella pratica il governo di Naypyidaw sta ostacolando l’arrivo dei soccorsi e soprattutto del personale incaricato di gestirli. Le tattiche di dilazione sono le tipiche dei regimi isolazionisti: in questo caso la giunta ha prima fatto sapere che sarebbero stati accettati solo interventi di funzionari delle Nazioni Unite per poi bloccarli in attesa del visto nella vicina Thailandia. Attualmente solo alcuni volontari del World Food Program e dell’Unicef hanno potuto cominciare la distribuzione di derrate alimentari nella zona di Rangoon, mentre al grosso del contingente umanitario è ancora impedito l’ingresso in Birmania. Di fronte ai reiterati appelli alla collaborazione - primo fra tutti quello di Washington - i generali fanno orecchie da mercante. Nella loro versione paranoica della realtà non c’è posto per la presenza di stranieri a pochi giorni dal referendum truffa che hanno deciso di far svolgere nonostante tutto: solo nelle zone disastrate il voto è stato rinviato, mentre nel resto del Paese si procederà come previsto all’inutile rituale. Per le Ong le disposizioni sono ancora più rigide. Secondo quanto riporta l'agenzia di notizie Mizzima i servizi di sicurezza dello stato sono stati posti in stato di massima allerta per controllare le organizzazioni internazionali ed impedire ai loro rappresentanti di muoversi liberamente sul territorio almeno fino alla data del referendum. Ben accetti invece gli aiuti “dalle nazioni amiche” ed infatti Cina, India e Thailandia sono subito corse al capezzale dello State Peace and Development Council, precedendo Europa e Stati Uniti nello stanziamento di fondi la cui destinazione sarà piuttosto difficile verificare in assenza di osservatori esterni.

Date le premesse, si può facilmente intuire come l'impatto del dopo-ciclone potrebbe essere addirittura più drammatico di quello della stessa tempesta, a meno che la comunità internazionale non riesca ad imporre le proprie condizioni superando le barriere della “sovranità nazionale”. Mentre scriviamo gli ultimi dati ufficiali parlano di più di ventimila morti e il doppio di dispersi ma diplomatici americani elevano la cifra delle vittime a centomila. Oltre alla crisi immediata, a preoccupare sono le prospettive a medio termine: l’area sconvolta dall’inondazione produceva da sola il 65 per cento del raccolto di riso del Paese e ospitava la metà degli allevamenti di polli e maiali. Chi farà fronte alle inevitabili carenze alimentari dei prossimi mesi? Alcuni analisti stanno già speculando sulla possibile ricaduta politica dell’incompetenza del governo. La rabbia fomentata dai postumi della tragedia - in particolare la lentezza nel ripristino dei servizi essenziali e l’aumento dei prezzi di cibo e carburanti - potrebbe sfociare in una aperta contestazione al regime proprio in coincidenza con la data sensibile del referendum costituzionale. Al momento però simili considerazioni sembrano decisamente fuori luogo: pretendere da una popolazione stremata una reazione collettiva del genere significa non tenere conto delle condizioni al limite della sopravvivenza in cui si trova. Peraltro i padroni del Paese non hanno esitato a mostrare il loro volto più familiare nemmeno nell’emergenza: per frenare una sommossa scoppiata nella prigione di Insein la notte dell’uragano, guardie carcerarie e soldati hanno aperto il fuoco uccidendo 36 prigionieri. Non si muore mai abbastanza nella terra delle mille pagode. 


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