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Una lunga crisi
senza fine

di Daniele Capezzone



La nuova Germania
di Angela Merkel

di Pierluigi Mennitti



Chi ha paura
della recessione?

di Massimo Lo Cicero



A piedi nudi
nel Vermont
di Barbara Mennitti



Cloverfield, manifesto di un'era
di Domenico Naso



Laura
Ravetto

di Stefano Caliciuri

[30 gen 08]

Chi ha paura della recessione?

Prende il via oggi la settimana decisiva per chiudere la crisi di governo, la più difficile delle ultime legislature repubblicane nonostante sia anche la più facile da leggere. Questa ultima caratteristica dovrebbe almeno evitare il ricorso agli espedienti che la prassi introduce nel rito costituzionale quando c'è la speranza che a guadagnare tempo si possa anche guadagnare la soluzione delle controversie. In verità le posizioni sono così nette che un eventuale esploratore avrebbe ben poco da scoprire organizzando un nuovo giro di consultazioni. Un ponte lo ha tagliato Prodi con la decisione di andare alle Camere e di contare i voti e, conosciuto l'esito della conta, con l'annuncio di non essere disponibile per un reincarico. Non avrebbe perciò senso un eventuale rinvio del governo al Parlamento, che si è già espresso certificando la fine della maggioranza. Di solito, quando viene meno il numero dei parlamentari necessari per reggere il governo, finisce anche la legislatura, regola che la nostra Costituzione non sancisce, neppure ora che il sistema elettorale consentirebbe di azzardare come vigente l'ipotesi maggioritaria. Perciò è in corso uno stucchevole dibattito che vede i gruppi politici schierati su due fronti: quelli che vogliono tornare alle urne per rimettere il gioco nelle mani degli elettori e quelli che se le inventano tutte per allungare il respiro della legislatura. E’ quanto sta accadendo in questi giorni, ognuno portando argomentazioni diverse, ma sarebbe il caso di dire rappresentando interessi diversi, all'attenzione di Giorgio Napolitano.

E’ sempre obiettivamente difficile che un capo dello Stato si rassegni a sciogliere le Camere alla prima crisi, ma questa remora è retaggio della cultura proporzionale. Un tempo le crisi esplodevano al’'interno di una coalizione comunque stabile per dissensi della più varia natura. La logica vincente era quella enunciata da Andreotti: tutto si aggiusta. Ma la cinica concretezza del leader democristiano si reggeva sulla base della stabilità dei numeri, che offrivano ai contendenti la possibilità di comporre le controversie. Oggi sono i numeri che mancano e non è accaduto nulla in questi giorni che abbia modificato le posizioni espresse in Senato. Napolitano perciò ha di fronte a sé due ipotesi: Veltroni (citiamo i leaders per esemplificare) vorrebbe un po’ di respiro prima di andare al voto perché così sistemerebbe le questioni sospese nella sinistra; Berlusconi vuole tornare alle urne immediatamente perché ha risolto i problemi nella destra. Naturalmente dentro questo schema ci sono altri elementi non proprio accessori: il Partito democratico deve regolare i conti con gli alleati, consolidare la leadership dei dirigenti, tentare di guadagnare tempo per allontanare e diluire la brutta percezione di un governo inconcludente; Forza Italia, invece, ha riguadagnato l'intesa con Bossi e Fini, sa di poter ricondurre alla ragione Casini, peraltro indebolito dalle dimissioni di Cuffaro.

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