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POPOLO DELLA LIBERTA': ATTENTI ALL'EFFETTO-PD
Giustizialisti e garantisti, cattolici e mangiapreti, industriali e operai: le liste del Pd sono piene di contraddizioni. Ma il Pdl sembra essere caduto negli stessi errori. E a farne le spese, ancora una volta, potrebbe essere la governabilità.

di PAOLA LIBERACE

[12 mar 08] Il bue dice cornuto all’asino. Chissà se negli ambienti del Pd qualcuno nelle ultime ore ha pensato di sfoderare questo motto popolare: ma se così fosse stato, non avrebbe avuto tutti i torti. Il bue è, naturalmente, il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi, giunto pressoché nudo alla meta delle candidature, dove i democratici lo aspettavano frementi. Quando Veltroni ha schierato le sue truppe, e ancor più alla presentazione delle liste, chiuse in anticipo rispetto alla scadenza, il centrodestra ha avuto gioco facile a evidenziare le mille contraddizioni che già all’esordio compromettevano la compattezza dello schieramento avversario. Mettendo insieme Binetti e Bonino, Ichino e la Cgil, Calearo e Boccuzzi, D’Alema e Di Pietro, si è detto, il Partito democratico si esponeva allo stesso errore compiuto dalla defunta coalizione unionista, lacerata dall’impossibile convivenza tra istanze eterogenee. Per giunta, l’errore di Veltroni rispetto a Prodi appariva aggravato dalla dichiarata vocazione maggioritaria del Pd, che in un primo momento era sembrata portare una ventata di novità: subito svanita quando sotto le sue insegne sono stati accettati tanto l’Italia dei valori quanto i Radicali.

Dal canto suo, con lo strappo dall’Udc (ma anche con la presa di distanza dalla Destra di Storace e dall’Udeur di Mastella) Berlusconi aveva voluto dimostrare che, quanto a correre da solo, lui non era secondo a nessuno. Al momento della faticosa composizione delle liste elettorali, il Cavaliere era anzi riuscito a evitare le cadute più marchiane, come l’affollamento di segretarie (e di veline, che pure era stato paventato): ma non a schivare i pericoli connessi alle candidature “di scopo”, come quella di Ciarrapico. Di per sé, l’imprenditore delle acque minerali, gigioneggiamenti nostalgici a parte, non sarebbe stato davvero un problema; ma la sua presentazione in lista, pensata appositamente per tamponare una situazione di emergenza, ha finito per ritorcersi contro il Pdl. E’ vero, la situazione del Lazio, blindato da Storace, richiedeva interventi energici; scampato il pericolo della Campania, dove il passaggio di De Mita all’Udc sottrae preziosa competitività al Pd, bisognava scongiurare il rischio di una Caporetto proprio nella regione della Capitale. In quest’ottica, aver presentato Ciarrapico e Bittarelli (leader della protesta dei tassinari, e perciò emblema antiveltroniano, più che antiliberalizzazioni) è stata una mossa azzeccata, che probabilmente pagherà. Ma non si può poi pretendere che nello stesso partito abitino le Nirenstein e i Capezzone, senza colpo ferire; per tacere delle inevitabili obiezioni provenienti dalle file di An, che si è già dovuta sorbire l’inclusione della Mussolini (per la quale la vera convivenza difficile non è quella con Dini, ma con Fini).

Il problema non è ideologico, ma squisitamente politico. Tanto il Cavaliere quanto l’ex sindaco di Roma hanno in effetti creduto che presentarsi alle urne senza alleati appendicolari fosse misura sufficiente a vaccinarli contro le emorragie parlamentari, che tanto avevano nuociuto alla salute del moribondo governo Prodi. Alla prova dei fatti, tuttavia, la strategia neoproporzionalista si è rivelata meno univoca di quanto sembrasse: mancando una nuova legge elettorale, i nuovi partiti non sarebbero riusciti ad affermarsi senza qualche accorgimento. Così, se da una parte sono stati accolti indiscriminatamente dipietristi e radicali, operai e imprenditori, dall’altra si è deciso di chiudere un occhio sulla pregiudiziale liberale e liberista che la nuova aggregazione si porta fin nel nome, rischiando di ricadere nello stesso effetto-Pd stigmatizzato pochi giorni prima. Con quale effetto sull’elettorato, lo si vedrà già il 13 e 14 aprile: ma con quali conseguenze sulla possibilità di governare, ahimé, lo si potrà vedere soltanto dopo.



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