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IN LIBANO IL FUOCO COVA ANCORA SOTTO LA CENERE
Un pretesto scatena la reazione di Hezbollah e a Beirut si torna a sparare e a morire. E il governo cede pur di porre fine alle violenze. Ma fino a quando?
di MATTEO GUALDI

[12 mag 08] Ancora una volta è bastata una scintilla per far scoppiare l’incendio. Da qualche giorno il Libano è ripiombato nell’incubo della guerra civile, con scontri durissimi tra sciiti e sunniti, a Beirut come a Tripoli. Nelle strade per il momento non si spara più, ed i miliziani del Partito di Dio si sono ormai ritirati, avendo ottenuto ciò che volevano. Di fatto il governo ha dovuto cedere, ancora una volta, per ottenere un ritorno alla normalità, ammesso che questa parola abbia ancora un senso in un Paese come il Libano. Tutto è cominciato con la decisione del premier Fuad Siniora di dichiarare illegale la rete di comunicazioni di Hezbollah, che consentiva al Partito di Dio di sorvegliare non solo l’aeroporto di Beirut, l’unico del Paese, ma anche i nodi principali del potere in Libano, dai ministeri alle banche ai porti. E’ stato grazie a questa rete che Nasrallah, il leader di Hezbollah, ha potuto continuare a trasmettere i suoi comunicati nei giorni della guerra del 2006 con Israele, ed è questa rete che consentiva ai sostenitori di Hezbollah, Iran e Siria, di sapere ciò che succede nel Paese, senza filtri, senza omissioni, vedendo tutto, sapevano tutto e, quindi, potevano tutto. Dichiarare illegale tale sistema è sembrata essere la decisione giusta, per cominciare a smantellare quella rete di potere, quello Stato nello Stato, che impedisce al Libano, per esempio, di nominare un nuovo presidente da 18 mesi. Ma naturalmente bisognava essere preparati alla risposta di Hezbollah, perché non era pensabile che il Partito di Dio si lasciasse “accecare” senza reagire.

Ed infatti la reazione è stata immediata e letale. Nasrallah, apparso giovedì in televisione, aveva dichiarato: “Avevamo promesso che avremmo tagliato le mani a chiunque avesse toccato le armi della resistenza: è venuto il momento di mantenere la promessa”. Da quel momento erano iniziati gli scontri, con le forze di Hezbollah che prendevano il controllo dell’aeroporto, della parte ovest di Beirut e del litorale al Mazra, Raas al Naba e Bishara al Khouri, per poi spostare l’attenzione verso il nord del Paese, a Tripoli ed Halba, nella regione di Akkar. Sabato il premier Siniora aveva definito l’attività di Hezbollah “un colpo di Stato”, ed aveva chiesto all’esercito di intervenire. E proprio questo è il problema: il legittimo governo libanese è impotente, perché non è in grado di controllare le proprie Forze Armate. E’ come un corpo nel quale le braccia non eseguono i comandi inviati dal cervello, un corpo che così non è in grado di difendersi. Ormai non è più il governo che tollera Hezbollah, bensì il contrario. Il Partito di Dio finge di accettare la legittimità delle decisioni del governo in carica, a patto che quest’ultimo non ne tocchi gli interessi. In questo senso la presa di posizione contro Hezbollah non ha fatto altro che rendere evidente l’impotenza del governo e la forza del Partito di Dio. Questa situazione, purtroppo, era in realtà sotto gli occhi di tutti da tempo, bastava voler vedere. Il governo non è in grado di imporre alcuna decisione ai miliziani di Hezbollah, che si rafforzano col passare del tempo, grazie anche all’aiuto di Iran e Siria, i quali continuano a fornire al Partito di Dio non solo armi, ma anche l’aiuto logistico e la formazione di cui ha bisogno. Il tutto sotto lo sguardo complice dell’esercito libanese e quello impotente delle forze Onu.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, per bocca del suo portavoce Farhan Haq, ha fatto sapere che le regole d’ingaggio dell'Unifil 2 potrebbero cambiare, anche se non immediatamente. Sull’argomento è intervenuto anche il nuovo ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che ha dichiarato: “E’ evidente che dovremo ascoltare la voce dei nostri militari e valutare se a loro avviso occorre ridiscutere, almeno in parte, le regole di ingaggio”. La risoluzione 1701, adottata nel 2006 per porre fine al conflitto tra Libano ed Israele, prevedeva che i caschi blu dell’Onu si schierassero nella regione a sud del fiume Litani, che doveva diventare una zona “libera da personale armato, da installazioni militari e da armi che non siano del governo del Libano e di Unifil” (articolo 8). Tuttavia, i militari impegnati nella missione, a comando italiano ed alla quale l’Italia fornisce il maggior numero di personale, sono limitati da regole di ingaggio che non consentono loro di intervenire. Praticamente in questi anni i nostri militari non hanno potuto fare altro che stare a guardare mentre il Partito di Dio si riarmava.

Lo stesso Segretario Ban Ki-Moon aveva denunciato la situazione già ad ottobre dello scorso anno, quando, presentando un rapporto dettagliato in merito alle operazioni di addestramento di Hezbollah, aveva affermato di essere “preoccupato del riarmo delle milizie in Libano e in particolare di Hezbollah”. Naturalmente alle parole non è seguito alcun provvedimento, ed il Partito di Nasrallah ha potuto tranquillamente continuare le proprie attività senza che nessuno gliene chiedesse conto. In effetti basta dare un’occhiata veloce a tutta la risoluzione 1701 per rendersi conto del fallimento politico della missione e dell’ambiguità dell’esercito libanese. Sarebbe proprio l’esercito, infatti, ad avere il compito di disarmare il Partito di Dio, prendere il controllo del sud del Libano e vigilare che non vi siano armi né interferenze da parte di nazioni straniere, ma nulla di tutto questo è stato fatto. Solo tre punti della risoluzione sono state attuati: la cessazione delle ostilità (ma per quanto tempo reggerà ancora la tregua?), il dispiegamento dei caschi blu dell’Onu nella regione a sud del Litani ed il ritiro delle truppe di Israele. Tutto il resto è rimasto lettera morta, ed ha consentito alle forze nemiche del Libano e della pace di rafforzarsi, mentre il legittimo governo registra, ogni giorno che passa, un’impotenza crescente ed una debolezza preoccupante.


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