Solidarietà o statalismo?
[terza parte]
di Antonio Martino
Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni,
erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per
le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si
proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono
l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle
riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria
elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo,
l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di
richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più
rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga
in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale.
Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad
un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità
del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra
battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a
risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono
ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi
occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la
direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se
riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa
direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.
(...) È questo il fondamentale punto di partenza di qualsiasi
analisi seria delle motivazioni dell’intervento pubblico: si è
voluta la titolarità pubblica perché non si voleva la gestione
economica. E la ragione va ricercata nel fatto che la gestione
anti-economica dell’impresa significava che i fattori produttivi
in essa impiegati percepivano remunerazioni superiori al valore
della produzione complessiva. Come sostenuto da Leonard Read,
quando uno riceve un reddito che non produce, qualcun altro
produce un reddito che non riceve e non riceverà mai. La
“pubblicità” dell’impresa, in altri termini, è stato semplicemente
un espediente per ridistribuire reddito a favore dei fattori
produttivi ivi “occupati “.
I vantaggi che ognuno dei dipendenti dell’impresa pubblica passiva
ricavava dalla situazione sono stati notevoli, immediati e a lui
ben noti. I costi che tale situazione comportava per la
collettività sono stati, invece, scarsamente compresi e di lungo
respiro. Pertanto, nel contrasto fra l’interesse generale della
collettività e quello particolare dei pochi beneficiari, in Italia
per troppo tempo è stato quest’ultimo a prevalere. È stato per
questa ragione fondamentale, e non per le varie giustificazioni di
volta in volta addotte, che l’intervento pubblico si è diffuso,
che le imprese in esso operanti sono state inefficienti e che la
privatizzazione è stata così difficile da realizzare.
Vediamo di chiarire. Prendiamo come esempio un’impresa pubblica
che ha occupato 10.000 persone e realizzato perdite per, diciamo,
57 miliardi all’anno, perdite che sono state “ripianate” con una
sovvenzione pubblica. In una situazione del genere, ognuno dei
10.000 dipendenti ha ricevuto in media 5.700.000 lire all’anno di
reddito in più rispetto a quello che produceva. Se il costo di
tale operazione di “ripianamento” è stato distribuito “a pioggia”
sull’intera collettività nazionale, ognuno dei 57 milioni di
Italiani ha finito per sopportare un costo annuo di sole 1.000
lire. Ecco la prima asimmetria: ognuno dei dipendenti della
impresa pubblica passiva ha avuto molto da guadagnare da una
situazione simile (5.700.000 lire), mentre ognuno di coloro su cui
è gravato il costo ha, in realtà, sopportato una perdita
relativamente piccola (1.000 lire).
In secondo luogo, mentre è assai probabile che ognuno dei 10.000
beneficiari ha saputo esattamente quanto gli rendeva l’esistenza
della impresa pubblica, è perlomeno dubbio che lo sapessero tutti
i 57 milioni di italiani. In conseguenza di ciò, mentre coloro che
hanno finito per trarre vantaggio da questa situazione si sono
battuti fino allo stremo perché non venisse modificata, i
danneggiati non hanno fatto molto per cambiare le cose, sia perché
ognuno di essi sopportava una perdita modesta, sia perché è assai
probabile che nessuno sapesse come stavano le cose. Qualsiasi
riferimento a noti impianti siderurgici non è casuale.
Inutile aggiungere che questo tipo di situazione è stata
certamente conveniente per la classe politica, sia perché ne ha
accresciuto enormemente il potere, sia perché ne ha amplificato
l’immagine. Pensate alla enorme influenza che per anni ha
conferito ai politici la gestione di interessi colossali come
quelli del settore pubblico: la possibilità di favorire amici,
parenti e sostenitori con lucrose quanto poco impegnative
“sistemazioni”, per non parlare della inevitabile, sistematica
collusione fra interessi privati e pubblici. Ma, anche quando il
politico era certamente onesto sotto il profilo materiale e
personale, l’intervento pubblico gli offriva ugualmente qualcosa
di importante: l’immagine, la possibilità di dare l’impressione di
essere impegnato seriamente al perseguimento del bene comune, la
visibilità, che per il politico costituisse condizione essenziale
di sopravvivenza. Come diceva Napoleone, la causa vera della
rivoluzione francese fu la vanità, la libertà ne fu solo il
pretesto.
Allo stato attuale, la correzione di rotta, se le considerazioni
sin qui esposte sono vere, non poteva, non può, essere cercata,
come sosteneva la sinistra, in un management più efficiente: il
problema non è la qualità della gestione, ma l’assenza di corretti
incentivi. L’inefficienza dei paesi comunisti non era dovuta ad
incapacità di gestione: anche se l’Urss avesse avuto a
disposizione manager capaci, sarebbe stata ugualmente
spaventosamente inefficiente.
Sembra un paradosso, ma è un’ovvietà; un’economia di mercato
concorrenziale si basa infatti su un “meccanismo di filtro”: la
concorrenza spazza via le imprese inefficienti e lascia crescere
quelle più competitive. Le aziende gestite da manager incapaci non
sopravvivono, quelle guidate da gestori di successo prosperano.
Ancora più importante è il fatto che nel libero mercato a decidere
se un manager sia bravo o meno non è un organismo politico o
amministrativo (che non solo manca di criteri obiettivi di
valutazione, ma è anche sempre corruttibile), ma un meccanismo
impersonale come il mercato. Sono i clienti delle imprese ad
attribuire i “voti” nella pagella dei manager: acquistando o
rifiutandosi di acquistare il prodotto in questione determinano il
successo o il fallimento dell’impresa, la “promozione” o la
“bocciatura” del suo manager.
I manager incapaci, quindi, in un’economia libera vengono
costretti a cambiare mestiere. Possono continuare ad esistere solo
quando manca o viene reso inefficace il criterio di valutazione
del loro operato, cioè quando manca il mercato. L’esistenza di
manager capaci, quindi, è conseguenza del libero mercato e della
proprietà privata, che determinano anche l’efficienza complessiva
dell’economia. Il problema dell’efficienza, quindi, è un problema
di libertà: un’economia libera è anche efficiente, un’economia che
non è libera non può nemmeno essere efficiente11. Alla luce di
queste considerazioni, e dell’esperienza fallimentare del settore
pubblico, ci si rende conto della straordinaria validità
dell’affermazione fatta dalla signora Thatcher nel 1979, a
proposito di un Paese che si trovava allora in condizioni assai
simili a quelle dell’Italia di vent’anni dopo: «In Inghilterra
esistono due settori: il settore privato, che è controllato dallo
Stato, e quello pubblico, che non è controllato da nessuno».
Per quanto riguarda il nostro tema, l’aspetto da sottolineare è
che l’intervento pubblico in economia ha sempre rappresentato uno
strumento di ridistribuzione di reddito del tutto simile nella
sostanza, anche se non nelle motivazioni “ufficiali”, ai programmi
dello Stato assistenziale. Come questi ultimi, il suo vero scopo è
sempre stato il trasferimento di risorse dal settore produttivo
privato a quello politico-burocratico. Solo il futuro dirà se
prevarranno gli interessi della collettività alla gestione
razionale delle risorse o quelli dei gruppi di pressione volti al
mantenimento dello status quo.
Conclusione
La parabola storica dell’assistenzialismo di Stato non ci ha
comunque liberato dalla paura. Questo “fratello maggiore” che
avrebbe dovuto curarci se ammalati, provvedere alla nostra
vecchiaia, alleviare la nostra povertà, garantirci un’istruzione
qualificata, assicurarci un impiego, ha insomma miseramente
fallito i suoi obiettivi. Il timore di una vecchiaia priva di
mezzi non è stato esorcizzato dal sistema pensionistico pubblico:
anche se si prescinde dall’esiguità delle pensioni di Stato e dai
gravi dubbi sull’equità di un sistema in cui è spezzata la
relazione fra contributi pagati e pensione cui si ha diritto,
resta il fatto che il sistema pensionistico pubblico, basato sulla
ripartizione, versa in condizioni di assai dubbia solvibilità
attuariale. Il sistema a ripartizione (in inglese: pay as you go),
infatti, copre il costo della pensioni corrisposte con i
contributi pagati dai lavoratori attuali. Date le tendenze
demografiche in corso, il numero dei potenziali beneficiari va
aumentando, mentre si riduce quello di coloro su cui grava il
costo del sistema pensionistico. Nasce così la non infondata paura
che, quando sarà il momento, la pensione di Stato su cui avevamo
fatto affidamento non ci consentirà nemmeno il tenore di vita,
anche basso, che ci attendevamo. Se a questo si aggiunge che le
imposte che siamo costretti a pagare per coprire le spese dello
Stato assistenziale riducono la possibilità di provvedere col
nostro risparmio ad assicurarci una comoda vecchiaia, si
comprenderà come non sia infondata la tesi secondo cui
l’assistenzialismo di Stato ha accresciuto, non ridotto, la paura
della vecchiaia.
Allo stesso modo, la paura delle malattie non è stata ridotta dal
servizio sanitario nazionale: il crescente ricorso ad
assicurazioni sanitarie private e l’elevata percentuale degli
aventi diritto a cure pubbliche “gratuite” che si rivolgono a cure
private a pagamento costituiscono prova irrefutabile del
fallimento dell’assistenzialismo di Stato in campo sanitario. Alla
normale paura delle malattie si è aggiunta quella di rischiare di
finire in strutture sanitarie pubbliche, di cui le cronache hanno
fornito per anni illustrazioni terrificanti. La paura della
povertà non è stata ridotta: l’assistenzialismo pubblico non ha
eliminato la povertà anche se ha una quantità tale di risorse che
avrebbe effettivamente potuto realizzare quell’obiettivo
leggendario. In base alla definizione ufficiale di “povertà”,
negli ultimi anni il numero di poveri è aumentato, non diminuito.
La disoccupazione non ha smesso di costituire causa di paura solo
perché l’assistenzialismo alle aziende, l’intervento diretto dello
Stato in economia, si proponevava il nobile obiettivo di “tutelare
i livelli di occupazione”. Secondo i dati ufficiali, la
disoccupazione ha, anzi, raggiunto nell’ultimo decennio livelli
assai elevati, e la paura ad essa connessa è semmai stata
accresciuta dalla sistematica distruzione di opportunità di
impiego dovuta allo statalismo ed all’iperfiscalità.
In sostanza, se lo Stato assistenziale non ha ridotto le cause di
paura, ha in compenso accresciuto enormemente l’incertezza circa
il futuro. Se lo scopo reale dell’assistenzialismo di Stato fosse
stato quello di ridurre la paura, l’obiettivo non solo è stato
mancato, ma si è addirittura ottenuto il risultato opposto. Oggi
l’Italia ha l’obbligo e il mandato popolare per invertire la
rotta, per riprendere la via dello sviluppo, che avevamo
abbandonato e che costituisce l’unica speranza di risolvere i
nostri problemi. L’ultimo decennio è stato di gran lunga il
peggiore nella storia della Repubblica: dal 1951 al 1960, il
reddito reale è aumentato del 66,5 per cento; dal 1961 al 1970,
del 53 per cento; dal 1971 al 1980, del 45,75 per cento; dal 1981
al 1990, del 29,7 per cento; dal 1991 al 2000, soltanto del 12,5
per cento. Gli anni Novanta ci hanno fatto diventare un paese in
via di sottosviluppo.
Per ricominciare a crescere oggi abbiamo l’obbligo di
ridimensionare drasticamente e subito l’invadenza pubblica
anzitutto riducendo sia la spesa pubblica sia il prelievo
tributario. Uno studio12 basato su dati relativi a 23 paesi membri
dell’Ocse e 60 paesi sottosviluppati ha dimostrato, al di là di
ogni ragionevole dubbio, questa elementare verità. Le conclusioni,
per quanto ci riguarda, possono così essere sintetizzate:
a) la spesa pubblica per le funzioni fondamentali (core functions)
dello Stato stimola la crescita economica, l’aumento della spesa
oltre quel livello finisce per rallentare lo sviluppo;
b) una spesa pubblica dell’ordine del 30 per cento del Pil (come
in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta) è compatibile con tassi
di sviluppo annui pari o superiori al 5 per cento, una spesa pari
al 45 per cento del Pil o più riduce la crescita a tassi pari o
inferiori al 2 per cento (l’esperienza italiana è conforme).
Ricondurre spesa pubblica e fiscalità al loro livello fisiologico
richiede coraggiose riforme dell’assistenzialismo italiano – su
più fronti: previdenza, sanità, scuola, università, l’intero
sistema di trasferimenti – attribuendo un ruolo crescente alla
fornitura privata di questi servizi in concorrenza con quella
pubblica, in modo da renderla anzitutto più efficiente, e
consentendo inoltre una sempre maggiore libertà degli interessati
di scegliere fra fornitori alternativi.
Per troppi anni lo Stato assistenziale ci ha imposto la difesa
degli interessi dei fornitori dei servizi (burocrati, politici,
sindacalisti, insegnanti, personale sanitario, ecc.) anziché di
quelli dei destinatari (pensionati, pazienti, studenti, ecc.). Il
costo elevato ed i risultati deludenti nascevano, del resto,
proprio da questo: con un sistema monopolistico in cui i fornitori
dei servizi sono stati protetti dalla concorrenza e hanno usato
l’apparato a loro vantaggio, i destinatari non hanno avuto alcuna
voce in capitolo. Adesso, con i risultati elettorali del 13 maggio
e il programma della Casa delle libertà, è arrivato il momento per
ribaltare la situazione, separare la fornitura (che deve essere
effettuata in concorrenza fra vari soggetti) dall’accesso (che
deve essere garantito dallo Stato a quanti non se lo possono
permettere), e restituire libertà di scelta agli interessati.
Questo è possibile, attraverso il sistema dei “buoni”
(buono-scuola, buono-sanità, ecc.). Solo così riusciremo a
contemperare le esigenze di solidarietà vera con quelle
dell’efficienza, in quadro di libertà e concorrenza.
La strada è chiara: dobbiamo passare dalla falsa solidarietà
dell’assistenzialismo, col suo patrimonio di ristagno,
disoccupazione e incertezza, per non parlare degli sprechi e della
corruzione che per troppi anni hanno penalizzato l’Italia, alle
concrete opportunità che solo lo sviluppo può darci. La vera
solidarietà è quella offerta da un paese che ci affranca dalla
dipendenza dalla carità pelosa della politica, ci consente di
provvedere da noi stessi ai nostri bisogni, rende facile trovare
un’occupazione attraente, produrre un reddito adeguato ai nostri
bisogni, e soprattutto ci lascia liberi di scegliere come
utilizzare la massima parte del nostro reddito, destinandolo alle
alternative da noi preferite.
3/fine
24 maggio 2002
(da
Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
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