Solidarietà o statalismo? [prima parte]
di Antonio Martino


Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni, erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo, l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale. Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.

Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”, aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito. C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica per sopravvivere.

Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti, che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà, quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che 1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che, in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”. Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato, appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” – è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo significa che per ogni milione di remunerazione netta al lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una “penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una multa di un milione».

Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la “solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male, quindi, ripensare a fondo l’intera questione.

L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo. L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro, anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari?

Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla. Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio” volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe essere oggi positivo.

Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici, compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche, sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.

Il costo dell’assistenzialismo

Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali, passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni, oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!

E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale, quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in questi termini.

Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la povertà.

Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura, dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari, ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno dubbia, data la presenza di elementi regressivi di ridistribuzione.

E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire “uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti, permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari dichiarati.

Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i 370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999 fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi 26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani “poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una considerazione importante: se le risorse per anni destinate all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.

E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare l’assistenzialismo universale.

25 aprile 2002

1/continua

 

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