Sviluppo Italia: la banca d’affari del
fallimento
di Salvatore Vescina
Per Sviluppo Italia è di nuovo l’anno zero. La tavola rotonda sul
Mezzogiorno, organizzata da Livolsi & Partner e tenutasi a Bari il
20 ottobre, offre l’opportunità al vice ministro Micciché -appena
ottenuta la delega al Mezzogiorno- per fare il punto sui risultati
e le prospettive dell’agenzia governativa. Senza esitare Miccichè
definisce Sviluppo Italia “banca d’affari del fallimento”.
Spietata verità che trova rappresentazione oggettiva nei documenti
contabili: delle duecento società partecipate nessuna è in utile;
in capo all’azionista pubblico ne conseguono perdite per 130
miliardi. Sviluppo Italia è tutta da rifare. Occorre una precisa
missione, non il rilancio del Mezzogiorno tout court, bensì azioni
aggiuntive rispetto alle politiche promozionali che competono ad
altre istituzioni. Questa è una grande novità perché supera la
concezione olistica che fin dall’origine ha prodotto
sovrapposizioni e conflitti tra la società del Tesoro e altri
organi dello stato.
Ed allora la nuova Sviluppo Italia dovrà concentrasi su azioni di
marketing territoriale per attrarre capitale esogeno (anche
italiano) nel Mezzogiorno. E’ una bella sfida. Ricordiamo che a
partire dal 1997 la Gepi di Gianfranco Borghini, poi Itainvest,
aveva avviato azioni di questa natura, proseguite quando la
finanziaria pubblica è confluita in Sviluppo Italia. Ma come nel
caso del cosiddetto merchant banking, anche sul terreno del
marketing localizzativo non vi è memoria di risultati concreti.
Non stupisce sia così, viste le strategie di comunicazione
impiegate. Ricordiamo ad esempio un’inserzione di Sviluppo Italia
pubblica sul “Pais” del 30 aprile scorso. A prescindere da ogni
considerazione sulla grafica e limitandoci al testo, evidenziamo
che agli imprenditori spagnoli si promettevano i contributi di cui
all’art.8 della finanziaria 2001. Si trattava e si tratta di un
incentivo dotato di una copertura finanziaria insufficiente,
sicché - nonostante la trattativa avviata con la Ue dal ministro
Tremonti - non è dato sapere se e fino a quando gli investimenti
in corso troveranno effettivo accesso ai benefici. Insomma, si
tratta di una misura adatta solo agli investimenti di immediata
realizzazione sempre che, a stretto giro, i beneficiari debbano
pagare dei tributi in quanto stiano già esercitando un’attività
economica nel nostro paese.
Dunque Sviluppo Italia ha promesso ciò che non poteva garantire,
l’ultimo degli incentivi che il più mediocre dei consulenti
avrebbe suggerito. Un bel modo per costruire un’immagine credibile
all’estero! L’inserzione in commento suscita ulteriori
perplessità. Perché si è condotta una campagna pubblicitaria in un
mercato così marginale come quello spagnolo, i cui investimenti
diretti all’estero rappresentano il 2 per cento del totale
mondiale? Perché si è usato come unico elemento di appeal la
disponibilità di incentivi quando è universalmente noto che la
Spagna utilizza i contributi comunitari più e meglio di noi? Sono
quesiti che evidenziano la necessità di colmare al più presto
carenze strategiche e organizzative in Sviluppo Italia. Tutti
sanno che prima di condurre un’azione di marketing è
indispensabile analizzare domanda e offerta. Occorre quindi
confrontarsi con gli altri paesi. Ci sarà un perché se in Italia
si dirige il 6,5 per cento degli Investimenti diretti esteri (Ide)
europei mentre in Francia l’11 per cento, in Germania il 13,7 per
cento, nel Regno Unito e nel Benelux il 24 per cento ciascuno. Ci
sarà un perché se la gran parte degli Ide si concentra nei paesi
più avanzati, quelli che non erogano contributi rilevanti alle
imprese, mentre solo una quota marginale è captato dagli stati
dove il costo del lavoro è molto basso. Tutto questo ha una
semplice spiegazione: il principale fattore di attrazione degli
investimenti esogeni è l’insieme delle economie esterne che incide
sulla redditività delle imprese (dalle infrastrutture, al fisco,
dall’ordine pubblico al sistema della formazione, ecc.).
Da questo punto di vista l’Italia e il Mezzogiorno risultano
scarsamente competitivi e non conviene “commercializzarli” come se
fossero realtà omogenee. Prima di organizzare le campagne
pubblicitarie, usando le reti che hanno rapporti con
l’imprenditoria estera (Ice, addetti economici presso le
ambasciate e i consolati, ecc.) bisogna “assemblare” non uno ma
più prodotti, pacchetti localizzativi che diano certezze sui
vantaggi offerti da specifici e circoscritti contesti
territoriali. Si deve trattare di più fattori concomitanti, dalla
disponibilità di materie prime ed aree attrezzate ad una filiera
produttiva o un sistema di subfornitura ben strutturato, da corsi
di formazione davvero qualificanti a infrastrutture specifiche per
determinate attività, e così via. Compito primario dell’agenzia
governativa - a modesto avviso del sottoscritto - dovrà essere
proprio l’approntamento di queste offerte, d’intesa con gli enti
preposti al rilascio delle autorizzazioni. Non va mai dimenticato
che l’architettura barocca degli iter amministrativi è tra i
principali fattori di inibizione della presenza estera nel tessuto
produttivo nostrano. Sviluppo Italia dovrà offrire tutta
l’assistenza necessaria al superamento delle difficoltà di questa
natura.
Quanto ai contributi pubblici, l’opinione di chi scrive è che fino
a quando il Mezzogiorno soffrirà del gap infrastrutturale che lo
caratterizza rispetto agli standard europei, essi rimarranno un
decisivo fattore di attrazione per i potenziali investimenti
esogeni. Allora, anche su questo terreno, occorrono strumenti che
diano certezze all’imprenditore straniero. Oggi disponiamo di
incentivi a pioggia che non si sa quanto dureranno (come
l’articolo 8 già citato), di incentivi lotteria che premiano gli
investimenti a bassa tecnologia (è il caso della legge 488/92) e
di uno strumento la cui discrezionalità rasenta l’arbitrio (il
contratto di programma). In Oklahoma gli investitori esteri si
vedono rimborsato per dieci anni il 5 per cento del monte salari
corrisposto ai quality jobs, cioè ai dipendenti il cui stipendio è
superiore alla media nazionale. Le imprese estere che intendano
investire in Olanda possono negoziare con le autorità di quel
paese un trattamento fiscale privilegiato che solo col tempo andrà
riallineato al regime ordinario. Perché mai non attribuire un
analogo potere di contrattazione alla nostra agenzia, anche in
convenzione con le altre autorità competenti, per favorire tutti
quegli insediamenti ad alto valore aggiunto il cui gettito
fiscale, già a medio termine, assicuri la restituzione dei
benefici concessi e dunque un profitto fiscale per lo stato, oltre
alle ricadute occupazionali, tecnologiche e commerciali?
26 ottobre 2001
salvatore.vescina@libero.it
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