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Punto diplomatico.
Bush alla nazione: “E’ iniziata la liberazione dell’Irak”
Deciso, misurato e diretto. Alle 22.15 ora di Washington (le 4.15
ora italiana e le 6.15 ora di Baghdad), il presidente degli Stati
Uniti George W. Bush ha annunciato al mondo, dallo Studio Ovale alla
Casa Bianca, che la guerra all’Irak era cominciata. Guardando fisso
nelle telecamere, il Presidente ha certificato quanto le agenzie di
stampa e i corrispondenti di guerra delle tv internazionali avevano già
segnalato da qualche minuto: era partito l’attacco a Baghdad. Nel breve
discorso durato appena quattro minuti, Bush ha ribadito che questa
guerra rappresenta la “liberazione dell’Irak” e che gli Stati Uniti, gli
inglesi e gli oltre 35 paesi alleati che forniscono aiuto a livello
diverso non lasceranno le cose a metà. “Andremo fino in fondo”, ha detto
“perché il nostro popolo non può vivere sotto la minaccia di un
assassino che può usare armi di distruzione di massa: decapiteremo il
regime”. La guerra potrà essere più lunga e insidiosa del previsto ma
gli americani sanno di essere in buone mani e che il loro esercito, i
loro soldati, sapranno riportare la vittoria sul campo. Rilanciando
alcuni punti già esposti in occasione del discorso dell’ultimatum,
all’inizio della settimana, Bush ha ribadito che l’azione militare sarà
condotta sino al completo annientamento del regime di Saddam e che il
popolo iracheno avrà il vantaggio di vivere in un paese libero e
democratico.
Con l’attacco militare lanciato dalle forze anglo-americane contro
l’Irak si apre una nuova fase della diplomazia. Come sempre accade i
giorni immediatamente precedenti il conflitto sono quelli del silenzio,
degli ultimatum, delle posizioni di principio mantenute con la forza
della retorica e dell’orgoglio. Poi, appena parte il primo colpo,
paradossalmente il buio diplomatico finisce e riprendono i contatti fra
le parti. E’ accaduto anche questa volta. Sul piano militare sono
intensi i rapporti informali fra il comando anglo-americano e le truppe
irachene dislocate nel sud del paese. Secondo indiscrezioni
dell’intelligence Usa, molte truppe di Saddam, soprattutto nella zona di
Bassora, avrebbero già assicurato di non voler combattere la guerra:
resteranno consegnate nelle caserme e non daranno battaglia. Gli
strateghi alleati contano su questa decisione per accelerare la marcia
dell’esercito verso Baghdad e intensificheranno questi rapporti
diplomatici con i generali iracheni nella speranza che un andamento
vincente nei primi giorni di guerra determini una specie di effetto
domino.
Sul piano politico, la Casa Bianca ha fatto trapelare la notizia che
l’Onu non rimarrà sepolto sotto le macerie del suo fallimento ma che
avrà un ruolo nella gestione politica della ricostruzione dell’Irak. Il
dopo-Saddam potrà rilanciare dunque le Nazioni Unite, anche se è
immaginabile che le vicende delle ultime settimane non resteranno senza
conseguenze. Il piano dell’amministrazione Bush è stato appena accennato
dal presidente americano in alcuni discorsi in patria, nel vertice delle
Azzorre con Blair e Aznar e poi ancora nel breve discorso con il quale
annunciava l’inizio delle ostilità. L’obiettivo è quello di
democratizzare l’Irak sperando di suscitare un effetto domino nella
turbolenta area del Medio Oriente. Un progetto molto ambizioso (e molto
rischioso) del quale, sinora, non sono state tracciate le varie tappe.
La settimana appena trascorsa è stata invece quella del buio
diplomatico. E’ stata la settimana nella quale tutte le finestre si sono
chiuse, inesorabilmente, una dopo l’altra. E’ stata la settimana degli
ultimatum e delle accuse incrociate. Dal vertice delle Azzorre alle
dichiarazioni dell’Eliseo, dall’ultimatum televisivo di George W. Bush
al monito del Papa, i protagonisti dei lunghi, estenuanti e
inconcludenti giorni della diplomazia hanno chiuso la partita delle
parole per aprire quella dei fatti. E i fatti sono la guerra all’Irak
per spodestare il dittatore Saddam Hussein e il clan familiar-politico
che stringe il cappio attorno al collo del popolo iracheno e che,
secondo le intelligence anglo-americane, ha finanziato il terrorismo
internazionale e detiene armi di sterminio di massa proibite da numerose
risoluzioni delle Nazioni Unite.
I leader politici hanno compiuto gli ultimi passi necessari per dare il
via all’attacco militare. Il premier inglese Tony Blair ha affrontato
una durissima discussione alla Camera dei Comuni, fronteggiando
soprattutto l’opposizione interna al suo stesso partito, manifestatasi
drammaticamente con le dimissioni di alcuni suoi ministri contrari alla
guerra. Il premier inglese è riuscito però a far approvare la sua
mozione con un largo margine (412 voti favorevoli, 149 contrari) grazie
anche all’appoggio dei conservatori. Discorso diverso per l’Italia, dove
il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha spiegato alla Camera e
al Senato che il nostro paese non parteciperà alle azioni militari con
sue truppe o con suoi aerei, pur mantenendo forte la solidarietà con gli
Stati Uniti. Si limita a concedere agli Usa l’utilizzo delle basi
militari e il diritto di sorvolo aereo: “L'Italia non è un paese
belligerante – ha detto Berlusconi in aula - ma concederà agli Stati
Uniti le basi e il sorvolo dello spazio aereo anche se dal nostro paese
non partiranno azioni dirette contro l'Iraq”. Alla conclusione di un
dibattito più caotico che drammatico, nel quale l’opposizione ha
confermato una posizione di radicale pacifismo, il governo ha ottenuto
la maggioranza sulla propria risoluzione con 304 sì e 246 no.
Sul fronte contrario alla guerra, da segnalare la riunione di mercoledì
scorso all’Onu, nella quale Francia, Germania e Russia hanno ribadito,
assieme al capo degli ispettori Hans Blix, che Saddam stava disarmando e
che sarebbe stato opportuno dare più tempo agli ispettori. Una riunione
surreale alla quale non ha partecipato il segretario di Stato americano
Colin Powell: il tempo era scaduto, ai confini dell’Irak già si stavano
scaldando i motori. (p. men)
20 marzo 2003
pmennitti@ideazione.com |
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