Punto diplomatico. Il grande gioco all’Onu è
ormai finito
Negli ultimi giorni tutto si è giocato all’interno del Palazzo di vetro
dell’Onu, mai come in queste ore apparso fragile come un Palazzo di
cristallo. Nelle stanze e nei corridoi del grattacielo di New York si è
consumato il tentativo anglo-americano di far approvare una seconda
risoluzione che avallasse in maniera esplicita l’attacco militare
all’Irak: Saddam non disarma, va cacciato. Su questa risoluzione si era
speso in prima persona il premier inglese Tony Blair che aveva elaborato
assieme alla sua diplomazia una serie di condizioni da presentare al
rais, la cui inosservanza avrebbe dato il là all’azione alleata. Un
ultimatum posposto di una settimana rispetto a quello pronunciato da
Bush (fermo al 17 marzo) e quindi spostato verso la fine del mese di
marzo: una serie di accorgimenti utili ad assorbire le preoccupazioni
europee che condizionano il raggio di azione dei governi – inglese,
spagnolo e anche italiano – che hanno sposato la causa di Washington.
La diplomazia americana aveva lavorato a fondo con i membri incerti che
siedono al Consiglio di sicurezza, in special modo quelli africani
(Guinea, Camerun e Angola), al centro di un furioso corteggiamento sia
da parte francese che da parte anglo-americana. Sino al punto da lasciar
trapelare una certa soddisfazione per aver quasi raggiunto l’appoggio
necessario a far passare la mozione: “Abbiamo raccolto otto voti, ce ne
manca uno solo per vincere il braccio di ferro”, avevano fatto sapere
fonti vicine alla Casa Bianca. Dall’Eliseo una controreplica: non è
vero, le posizioni sono sempre le stesse e dall’Africa non ci risultano
novità. Un lavorìo ai fianchi dei membri del Consiglio fatto non tanto
di persuasione politica, quanto di offerte economiche, minacce di
ritorsioni, ricatti commerciali. Francia e Stati Uniti non si sono
risparmiate in un’operazione che all’interno del Palazzo di cristallo è
praticamente la regola e che strappa il velo sull’alone di moralità che
un’opinione pubblica disinformata ha steso attorno all’Onu.
L’organizzazione che da cinquant’anni governa i conflitti del globo non
è, difatti, un’autorità sovranazionale che vive di una legittimità
morale al di sopra delle parti. E’ un consesso di nazioni e le sue
deliberazioni vengono prese attraverso uno scontro continuo fra le parti
che vede, di volta in volta, dei vincitori e dei vinti. E dei paesi che
traggono dagli equilibri che si erano creati subito dopo la Seconda
guerra mondiale un potere di grande prestigio: quello di veto. Di questo
ha approfittato la Francia per giocare la propria carta in funzione
antiamericana. La reiterata minaccia di estremizzare lo scontro fino
all’utilizzo del diritto di veto ha prima rallentato, poi quasi stoppato
la presentazione della seconda risoluzione. Resta l’incertezza e le
notizie si rincorrono di ora in ora, tanto che risulta quesi inutile
starvi dietro. Due le ipotesi: prendere ancora tempo per convincere i
membri del Consiglio di sicurezza, come vorrebbe Bush o rinunciare del
tutto come suggerisce Blair. In questo caso la guerra non avrebbe
l’avallo dell’Onu.
D’altro canto il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin
aveva bocciato la nuova proposta inglese appena qualche ora prima che lo
facesse anche Saddam. Parigi e Baghdad liquidavano così, ancor prima che
venissero presentate in Consiglio, le sei condizioni di Blair e anche la
Russia, sballottata fra i filoamericani che vorrebbero ricucire lo
strappo con Bush e gli antiamericani che sognano di tornare ai fasti
della superpotenza, ribadiva la minaccia del proprio veto in seno al
Consiglio Onu.
Nelle stesse ore in cui a New York la situazione si incartava,
denunciando per l’ennesima volta lo stallo dell’Onu, nelle capitali
interessate alla crisi si riprendeva a discutere di strategie. Usa e
Gran Bretagna stringono ormai la morsa militare attorno all’Irak. Sempre
fondamentale per la strategia bellica resta la posizione della Turchia,
il cui parlamento due settimane fa aveva bocciato la proposta di far
passare le truppe americane sul proprio territorio. Si attende una nuova
votazione del parlamento per aprire anche il fronte Nord. Ultime chances
anche per i cosiddetti paesi arabi moderati che stanno lavorando
all’ipotesi di esilio per Saddam. Nessuno di loro ha solidarizzato con
il rais e molti hanno lavorato dietro le quinte affinché il cambio di
regime a Baghdad avvenisse senza le armi. Su questo tentativo puntavano
anche alcuni governi europei rimasti un po’ nel limbo, come quello
italiano che, pur avendo assicurato agli Usa il proprio appoggio
mantengono una posizione di estrema prudenza. Opinione pubblica
fortemente pacifista, opposizione politica per nulla disposta a dividere
le responsabilità di un impegno militare al fianco dell’alleato
americano, preoccupazioni per le sorti della presidenza del prossimo
semestre europeo, hanno spinto Berlusconi a defilarsi un po’. Sembra
quasi che giochi in difesa, il premier italiano, nell’attesa che accada
qualcosa che eviti la guerra. Ma il tempo stringe, nulla accade e
l’azione militare si avvicina. Nelle condizioni che Berlusconi aveva
considerato le peggiori possibili: nessun ombrello dell’Onu, Occidente
diviso, Europa frantumata. Gli Usa adesso ci chiedono anche un appoggio
militare: è tempo di riprendere la questione di petto confermando una
posizione di responsabilità che gioverà agli interessi nazionali
dell’Italia. (p. men)
14 marzo 2003
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