Liberare il
lavoro
VIVERE LA FLESSIBILITA'
di Vittorio Macioce
C’era un tempo,
forse neppure tanto lontano, in cui il lavoro non era soltanto una
professione, ma nel bene o nel male caratterizzava anche la posizione
sociale di ciascuno, segnava il futuro di un individuo o di una famiglia,
definiva il livello culturale, condizionava le idee politiche e il modo di
vestire. Era, in qualche modo, una carta d’identità. Erano i tempi in cui
si entrava in un’azienda e si restava lì fino alla pensione. Il
licenziamento era un infortunio, una disgrazia e, a meno che non fosse
l’imprenditore a fallire o a chiedere una ristrutturazione, perdere il
lavoro era comunque una colpa o un’indegnità dell’individuo. Questa,
perlomeno, era l’opinione corrente. E’ evidente che ormai questo è un
orizzonte perduto. E’ la fine del modello fordista o taylorista, tipico
delle grandi cattedrali industriali, dell’operaio-massa e dei contratti
collettivi di lavoro. E’ anche il tramonto di alcuni miti del “posto
fisso”, ora che perfino il classico lavoro in banca non dà più garanzie
per il futuro. Resta il pubblico impiego, che comunque offre ormai spazi
minimi di ingresso e stipendi sempre meno competitivi, si pensi alla scuola.
La situazione italiana
appare poco confortante. Il 64 per cento dei giovani occupati impiega più
di un anno per trovare lavoro, mentre la media europea è del 38 per cento.
Un confronto tra i paesi dell’Unione sulle iniziative per favorire lo
studio, trovare casa, facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro, vede
l’Italia all’ultimo posto. E il futuro è ancora più nero. Se la
produzione resta ai livelli attuali, all’inizio del prossimo secolo il
tasso di disoccupazione giovanile rischia di arrivare al 25 per cento. Al
Sud potrebbe superare il 50 per cento. Il tasso di povertà – nella fascia
di età tra i 19 e i 24 anni – toccherà il 15 per cento (25 per cento al
Sud). Con un tasso di crescita della produttività pari al 2 per cento
l’anno (previsione al momento ottimistica) – si sottolinea ne La guerra
dei trentenni (Giuseppe Pennisi, Ideazione editrice) -– sarà pressoché
impossibile mantenere le prestazioni dello Stato sociale. In pratica, niente
pensioni. Chi è nato nel 1998 dovrebbe infatti versare all’erario un
flusso di tasse e contributi quattro volte superiore a quello attuale.
Jeremy Rifkin, qualche
anno fa, ha fatto fortuna con un saggio su La fine del lavoro, dove teorizza
l’interruzione di quel circolo virtuoso tra crescita industriale e
occupazione che ha caratterizzato buona parte del Novecento. Il futuro è un
mondo in cui la produzione verrà sempre più affidata alle macchine e
pertanto lo spazio per il lavoro umano è destinato a ridursi. L’industria
non crescerà più insieme all’occupazione, ma per certi versi –
sostiene Rifkin – contro l’occupazione, divorando posti di lavoro. La
macchina industriale postfordista cresce dimagrendo. Accumula ricchezza
disperdendo gli uomini. In questo nuovo paradigma gli investimenti non
garantiscono occupazione. E’ uno scenario che presenta alcuni risvolti
millenaristici e forse indugia un po’ troppo nei toni tragici, ma segnala
un processo che finirà per condizionare l’approccio degli individui al
lavoro.
Il popolo dei
contratti atipici
L’ufficio appare
abbastanza asettico, quattro scrivanie, quattro computer in rete. E quattro
ragazze tra i venticinque e i trent’anni. Lavorano, almeno per qualche
mese, per la Global Credit, una finanziaria. Margareth, testarda e un po’
cinica, vuole fare carriera all’interno dell’azienda. Paula è lì –
dice – solo di passaggio e sogna di diventare attrice, o qualcosa di
simile. Jane spera di realizzarsi nel matrimonio. Iris si accontenta e
lascia che il destino scelga per lei. Intorno a questi quattro personaggi in
cerca d’identità si svolge la trama di Clockwatchers, lungometraggio
inglese del 1998, arrivato in Italia con il sottotitolo di “Impiegate a
tempo determinato”. Il film, di per sé, è piuttosto noioso. Solita
storia di piccole emozioni, grandi frustrazioni, trama evanescente,
minimalismo, ma che si inserisce in quel filone, emerso nella prima metà di
questo decennio, che presenta come protagonista una figura sociale sempre più
diffusa (in Italia più di due milioni e mezzo di persone sono iscritti al
Fondo previdenziale speciale riservato ai parasubordinati): il lavoratore
flessibile, quello dei contratti atipici, sempre con un orizzonte in bilico
tra precariato, lavoro nero e un “posto normale da vita normale”.
Questa figura sociale
è il prodotto di un mercato del lavoro in contrazione, chiuso, instabile e
poco remunerativo. Un mercato in cui la trasmissione del sapere da una
generazione all’altra tende sempre più a ridursi. Il fattore dominante
dell’esistenza, che nel lavoro continua comunque ad avere uno dei suoi
perni centrali, non è più il tracciato segnato dalla tradizione, ma una
sorta di “Dio dell’incertezza”, che pone di fronte ad ogni individuo
una serie di scelte, in qualche modo determinanti, comunque influenti, da
cui dipende il percorso futuro. In termini di carriera ci si ritrova spesso
a saltare da un binario all’altro. Non si agisce lungo una linea retta, ma
seguendo curve il più delle volte casuali, dettate dalle necessità del
momento, con cui si va avanti, ci si interrompe, si torna indietro o si esce
completamente fuori scia. Una situazione che il sociologo americano Ken
Dychtwald, in Age Wawe, ha riassunto così: «Detto in modo semplice: per
prima cosa imparavi, poi lavoravi, in genere sempre nello stesso posto, e
alla fine morivi. Si supponeva che al termine dell’adolescenza tu sapessi
cosa avresti voluto fare per il resto della vita. I trenta e i quaranta
erano gli anni della cura dei figli; i cinquanta e i sessanta, se ci
arrivavi, quelli dei nonni. Il tragitto dall’infanzia alla vecchiaia era
diritto. Aveva una sola direzione, con poco spazio per esitazioni,
deviazioni o seconde possibilità. Questo piano di vita lineare era sorretto
dalle forze della tradizione. Ora ci si muove senza grandi rotte. La
strategia diventa tattica, la guerra si fa giorno per giorno. Non c’è più
nessuno in grado di dirti: si fa così. L’unica regola aurea è imparare a
convivere con l’incertezza. La crisi del modello taylorista rappresenta
una rivoluzione copernicana nell’esistenza dell’uomo. E vivere, più che
in passato, diventa una questione di scelte individuali».
Come convivere con
questo nuovo universo? Nella cultura del lavoro italiana i contratti atipici
rappresentano ancora uno strumento di passaggio e di formazione, una specie
di “purgatorio” in cui si sta in attesa di una situazione migliore e più
stabile. Servono, più che altro, a dare un po’ di respiro a chi si
arrangia e spera, prima o poi, di trovare un posto fisso. Anche le aziende,
d’altra parte, tendono a guardare al part-time o ai contratti a tempo
determinato come ad una sorta di apprendistato, utile per valutare le
capacità dei nuovi arrivati. Di fatto, sia dal punto di vista della domanda
sia da quello dell’offerta più che una filosofia della flessibilità
sembra emergere, in genere, una “legalizzazione” del precariato. Nella
maggior parte dei casi l’accesso al lavoro dipendente prevede, almeno
inizialmente, forme non stabili. Molto spesso, comunque, buona parte delle
nuove opportunità d’impiego non contemplano uno stipendio ogni mese, un
orario di lavoro prestabilito, le garanzie contro il licenziamento,
un’integrità di cassa integrazione o di mobilità. Si parla del vasto
mondo delle collaborazioni: consulenti, freelance, lavoratori occasionali,
partite Iva, contratti d’agenzia, associazioni di partecipazione. Non ci
sono chiare definizioni formali di queste tipologie. Non sono lavoratori
dipendenti, non sono lavoratori autonomi, non sono imprenditori. I contratti
a tempo determinato, il part-time, la formazione lavoro, l’apprendistato e
l’inserimento lavorativo (che promuovere l’ingresso nel mondo del lavoro
di giovani del Mezzogiorno tra i 19 e i 32 anni) sono senza dubbio più
vicini alla categoria classica dei lavoratori dipendenti. Con due rilevanti
eccezioni: oneri contributivi più bassi e maggiore flessibilità del
contratto di lavoro.
Più vicini alle
caratteristiche del lavoro autonomo gli altri “atipici”: collaborazione
coordinata e continuativa (un’area molto vasta che va dai pony express
agli informatori medico-scientifici, fino alle modelle), collaborazione
occasionale, contratto d’opera (con cui una parte si obbliga a compiere un
servizio prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione con il
committente), contratto di agenzia (rappresentanti di commercio,
assicuratori, eccetera), associazione in partecipazione (retribuzione
attraverso gli utili d’impresa). La riforma delle pensioni del 1995 ha
istituito un fondo previdenziale riservato a questo tipo di lavoratori,
alimentato da un prelievo contributivo con un’aliquota del 10 per cento,
elevata nel 1997 al 12 per cento, che sarà gradualmente portata al 19 per
cento entro il 2018. In cambio del contributo previdenziale – pagato per
due terzi dal committente, ossia il datore di lavoro – c’è la
possibilità di costruire una pensione pari al 20-30 per cento dell’ultimo
reddito percepito. Le regole sono simili a quelle dei dipendenti: per andare
in pensione bisogna avere almeno 57 anni e superare il requisito della
pensione minima maturata. Tuttavia per realizzare un anno di anzianità
contributiva bisogna aver versato contributi corrispondenti ad un reddito
annuo di 22 milioni. Se si guadagna meno di questa cifra, per la pensione
bisognerà aspettare qualche anno in più.
Per chi sceglie questo
tipo di contratto, la flessibilità dell’orario e la possibilità di
attivare più rapporti di lavoro rappresentano, o possono rappresentare, una
scelta di autonomia e, almeno come modello di riferimento, una risposta al
declino del lavoro dipendente “classico”.
Il capitale umano
Il futuro della società
occidentale sembra lasciare una sola via d’uscita, diventare imprenditori
di se stessi, proprietari di un capitale che si chiama “lavoro”, un
patrimonio di cultura generale, sapere specializzato, capacità decisionale,
pubbliche relazioni, attitudine al rischio, temperamento poliedrico,
talento, voglia di avventura. Quasi dei mercanti medievali, quelli in cui
Werner Sombart ha intravisto lo spirito del capitalismo, sospesi tra i
vecchi confini della civiltà feudale e l’aria libera della città. E
descritti così: «Ad una ricca dotazione dei doni dell’intelletto, deve
corrispondere una gran quantità di forza vitale, di energie vitali. Nella
loro essenza vi deve essere qualcosa di stimolante, qualcosa che tramuta in
tormento il pigro ozio accanto alla stufa, qualcosa di duro come le ossa, di
tagliente come la scure, di teso come i nervi. Abbiamo chiaramente davanti
agli occhi l’immagine di un uomo che chiameremo intraprendente». Ed è
proprio nei flexi, come vengono definiti in Inghilterra i lavoratori
flessibili o precari, che si comincia a notare una certa tendenza ad
investire nello sviluppo della propria professionalità. L’importante è
stare sul mercato e giocare la partita, aumentare il numero dei contatti e
delle relazioni professionali, apprendere un mestiere e diventare
competitivo. Anche a costo di guadagnare di meno, una specie di penale da
pagare per superare quel muro che divide i garantiti dagli esclusi, sapendo
che per essere competitivi bisogna portare sul mercato un prodotto (in
questo caso la propria professionalità). Secondo un sondaggio commissionato
dalla Cgil c’è in Italia un 75,5 per cento di individui, su un campione
che raccoglie giovani tra i 19 e i 30 anni, disposto ad accettare un salario
più basso in cambio di un’esperienza lavorativa. Vale a dire: meno soldi
ma più opportunità di imparare qualcosa di utile per il proprio futuro.
Per lo più risiedono al Centro e al Sud e presentano un buon livello
culturale. Gli inflessibili rappresentano la parte minoritaria. Soltanto il
14 per cento rifiuta in modo totale qualsiasi ipotesi di flessibilità, sia
territoriale sia salariale. Si tratta, in genere, dei più giovani e di chi
abita nel Nord-Est, dove la disoccupazione è più bassa e il lavoro sicuro,
caratteristica che rende meno necessario il mettersi in gioco fino in fondo.
Ma inflessibili sono anche quelli che hanno un basso livello culturale e
svolgono mansioni operaie e manuali. I titubanti, in posizione di attesa,
che oscillano tra indisponibilità e incertezza, sono appena il 10 per
cento, in maggioranza risiedono al Centro. Come opzione principale sperano
nella riapertura dei concorsi pubblici.
Il sondaggio della
Cgil disegna anche alcuni profili sulla base della propensione al rischio,
valutando gli atteggiamenti rispetto al futuro professionale: meglio un
posto sicuro senza carriera o una carriera senza posto sicuro? Il 45 per
cento del campione, definiti intraprendenti, dichiara che di fronte ad
un’occasione di lavoro interessante ma pericolosa direbbe di sì. In
maggioranza si tratta di laureati e il Nord prevale sul Sud. Il 34,1 per
cento (accorti) si dichiara disponibile alle opportunità in arrivo, ma
senza azzardare troppo. L’8,6 per cento (timorosi) soltanto con difficoltà
sarebbe disposta a prendere dei rischi. Il 12,3 per cento (minimalisti),
infine, non sarebbe disposto ad accettare percorsi professionali incerti,
tali da mettere a repentaglio la stabilità del posto. Non è il caso di
esaltare i sondaggi, anche se la Cgil di solito su questi temi tende a non
enfatizzare il desiderio di flessibilità, ma si fa comunque più chiara la
sensazione che la risposta alla crisi occupazionale sta facendo maturare una
nuova concezione del lavoro, più affine alle esigenze di un mercato libero
che al sistema di vincoli e garanzie caratteristico del vecchio welfare
state. Resta da capire se il sistema-Italia è pronto ad accogliere queste
richieste che arrivano dal basso e se la situazione del lavoratore
flessibile è quella di un imprenditore che investe, non tanto il proprio
capitale economico, ma soprattutto il proprio capitale umano o, viceversa, i
contratti atipici e di collaborazione parasubordinata si confermano una
forma di precariato, un “purgatorio” per chi è in attesa di trovare una
sistemazione decente, qualcosa di simile ad un lavoro nero legalizzato, una
condizione fatta di incertezza per il futuro, associata ad un basso reddito
che, forse, permette di sopravvivere, ma non certo di accumulare per gli
imprevisti. Le misure a favore della flessibilità, sia pure con alterne
vicende, vanno avanti, ma la riforma dello Stato sociale appare
sostanzialmente bloccata. «L’integrazione dei lavoratori flessibili come
parte integrante del ciclo produttivo e componente importante nei processi
di outsourcing – scrivono Sergio Bologna e Andrea Fumagalli (Il Lavoro
autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, 1997) – porta alla
ridefinizione delle forme di tutela delle attività e delle condizioni di
lavoro. Da una parte vi è infatti l’obsolescenza dello Statuto dei
lavoratori, fatto su misura per una categoria di lavoratori, i salariati a
tempo indeterminato, che oggi rappresentano solo una parte, seppur
consistente, del mondo del lavoro, ma destinata a diventare sempre più
minoritaria. Dall’altra le relazioni industriali restano regolate sul
principio della contrattazione collettiva, quando una fetta sempre più
vasta di lavoratori è sottoposta a contrattazione individuale».
Per
ora ci si è limitati a misure tampone che non incidono sulle due uniche
variabili che possono liberare il mercato dal suo stato di rigidità: costo
del lavoro e flessibilità. Non sono bastati infatti i diversi appelli della
Banca d’Italia per ridurre gli oneri contributivi e fiscali che pesano
sulle aziende (con la speranza di far emergere almeno una quota di lavoro
nero) e di legare il salario alla produttività dell’azienda, trasformando
il lavoratore dipendente in un “professionista” che si assume anche il
rischio imprenditoriale, pronto a scommettere sull’azienda in cui lavora e
a vincere o perdere con essa. L’ostinazione dei sindacati a considerare
inammissibile qualsiasi apertura a politiche salariali differenziate (anche
in base al costo della vita dei vari distretti territoriali) ha prodotto una
schiera di non-garantiti, costretti a vivacchiare ai margini del sistema
produttivo o a entrare in tale mercato a condizioni molto più sfavorevoli,
fino a rifugiarsi nel sommerso, se non ad accettare situazioni di illegalità
o semilegalità. Ed è proprio il lavoro nero (si parla in Italia di un
esercito di dieci milioni, anche se di questi quasi sette non sono in realtà
disoccupati, bensì svolgono un doppio lavoro e appartengono quindi alla
categoria dei protetti e privilegiati) a rendere evidente le conseguenze di
una politica “conservatrice”, che si preoccupa di garantire gli stessi
standard di vita a chi ha già trovato un ruolo consolidato nel processo
produttivo. Si è creato così un patto “illegale” tra le aziende e i
disoccupati. Le prime, soffocate da un costo del lavoro troppo alto,
assumono solo in nero. I secondi, pur di ricevere un salario, accettano di
lavorare senza tutela sindacale. Con una conseguenza negativa anche per
Cgil, Cisl e Uil, che nel lungo periodo rischiano di veder dileguare anche
la loro base sociale (rassegnandosi ad un ruolo di rappresentanti dei
pensionati), e per lo Stato, che finisce per perdere un’ampia quota di
contributi previdenziali e fiscali. E’ proprio seguendo la traccia di
questo “patto sul lavoro sommerso” che si percepisce la convergenza di
interessi politici, che al momento nessuno ha saputo o voluto raccogliere,
tra il “popolo delle partite Iva” e le nuove generazioni. Sono, infatti,
proprio questi due soggetti che si ritrovano nella necessità di spingere
verso una riforma dell’architettura sociale del Paese. La scommessa non è
facile e per vincerla bisogna conciliare due interessi in qualche modo
contrapposti: liberare il lavoro e garantire, nello stesso tempo, la dignità
umana ed economica di chi lavora. Il welfare del futuro non dovrà avere più
l’ambizione di garantire tutti, lascerà anzi ai più forti (per nascita e
virtù) la libertà di giocarsi la propria partita e si preoccuperà,
invece, di assistere in modo concreto chi (per disgrazia e debolezza) subirà
gli infortuni della flessibilità. Dando, così, ai più sfortunati
un’occasione di rivincita, di ripartire e rientrare in gioco.
Vittorio Macioce |

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