Liberare il
    lavoro 
    
    UNA POLITICA 
    PER LA PIENA OCCUPAZIONE 
    di Renato Brunetta
    Povera Italia,
    meriteresti di meglio. Tre anni di governo delle sinistre hanno trascinato
    il Paese in un circolo vizioso caratterizzato da più tasse, più spesa
    pubblica, meno competitività, meno lavoro. Proprio la lotta alla
    disoccupazione, che dovrebbe essere il punto qualificante di ogni esecutivo
    di sinistra, rappresenta il grande fallimento dei governi di Prodi e
    D’Alema. I dati sull’andamento dell’occupazione nel mese di aprile
    ’99, sbandierati dal governo come il segno della sospirata inversione di
    tendenza, analizzati con un minimo di attenzione confermano questo
    fallimento. L’aumento del numero degli occupati in aprile, pari a 282.000
    unità, in realtà è tutto dovuto ai contratti a termine ed ai part-time,
    senza i quali l’occupazione sarebbe dunque in calo. Un’economia in cui i
    posti di lavoro “precari” non si sommano, ma vanno a sostituire quelli
    stabili, in cui il lavoro “buono”, insomma, viene distrutto e cede il
    passo a quello “cattivo”, precario e magari senza contributi, è
    un’economia malata.
    
     
    Del resto, per creare
    lavoro occorre innanzitutto produrre ricchezza, e da questo punto di vista i
    risultati dei governi delle sinistre sono disastrosi. La crescita economica
    è in calo continuo (bene che vada il prodotto interno lordo italiano
    nell’anno in corso crescerà dell’1 per cento, il tasso più basso
    d’Europa). Le classifiche sulla competitività vedono inoltre il nostro
    Paese arrancare nelle ultime posizioni, preceduto da tutti i partner europei
    e dai Paesi di mezzo mondo, tra cui la Cina, l’ultima roccaforte del
    comunismo.
    
     
    I dati sulla
    distribuzione geografica dell’occupazione confermano la totale
    inadeguatezza delle politiche adottate dalla sinistra italiana (sociale e
    politica): dove l’impresa, nonostante il freno a mano tirato rappresentato
    dallo Stato e dalla sua cattiva burocrazia, riesce a fare da traino (a
    Nord), l’occupazione, sebbene a stento, ancora cresce; dove più si sono
    concentrate le politiche del governo (e cioè a Sud, fulcro dell’azione
    dell’ex ministro Bassolino), la disoccupazione aumenta o rimane stabile su
    livelli vergognosamente elevati. La verità, quindi, è che l’Azienda
    Italia, con le sue imprese ed i suoi lavoratori, tira avanti
    “nonostante” la politica economica del governo, e non certo “grazie”
    ad essa, come invece qualche ministro vorrebbe far credere.
    
     
    Sul fronte della lotta
    alla disoccupazione l’azione dei governi Prodi e D’Alema appare ancora
    più inconcludente se si guarda ai risultati ottenuti, in una situazione più
    difficile di quella italiana, dal premier spagnolo José Maria Aznar, il
    quale, con una politica di liberalizzazione (molto simile a quella
    progettata dal governo Berlusconi) ha fatto nascere in tre anni 1.200.000
    nuovi posti di lavoro, ed ancora di più (1.300.000) conta di creare nel
    prossimo triennio. Grazie alle coraggiose riforme del mercato del lavoro e
    della previdenza varate nel 1997, ogni anno la Spagna riduce il tasso di
    disoccupazione di due punti decimali.
    
     
    Anche l’Italia ha
    bisogno di cambiare. Servono più libertà, più responsabilità e più
    mercato: proprio quello che adesso non c’è. La prima cosa, per far
    funzionare il mercato del lavoro, è deregolamentare tanto i flussi di
    entrata quanto i flussi di uscita ed eliminare le rigidità normative
    costruite ad uso e consumo della grande impresa che, nelle piccole realtà
    produttive, ostacolano l’incontro contrattuale tra domanda e offerta di
    lavoro.
    
     
    Al contempo occorre
    diminuire la pressione fiscale, tanto sulle imprese quanto sul lavoro.
    L’emersione della straordinaria quota di economia sommersa che distingue
    l’Italia dagli altri paesi industrializzati deve essere il fine delle
    politiche del lavoro, fiscali e di quelle rivolte alla radicale riforma
    delle amministrazioni pubbliche. L’emersione dei lavori irregolari isola
    le economie criminali, rimuove un pesante freno alla modernizzazione, riduce
    il numero degli immigrati clandestini attratti dal lavoro sommerso, fa
    crescere le entrate fiscali e contributive. Ma soprattutto la politica
    economica deve introdurre nel sistema italiano meccanismi che portino
    tendenzialmenrte verso la piena occupazione. Perché questo avvenga è
    necessario che i nuovi posti di lavoro costino meno del valore da essi
    prodotto. Un simile processo può essere innescato solo rendendo flessibili
    le remunerazioni del lavoro, lasciandole libere di salire nei settori dove
    la domanda di lavoro cresce, e di scendere laddove la domanda di lavoro
    cala. Occorre, insomma, cambiare le regole del gioco, accelerando le
    tendenze già presenti nelle nostre società, puntando, da un lato, verso
    forme di organizzazione sociale non più basate sul passivo lavoro
    salariato, ma su modalità di auto-impiego e di partecipazione attiva e
    responsabile alla formazione e alla distribuzione del reddito prodotto,
    attraverso la partecipazione e l’azionariato dei lavoratori e la
    conseguente condivisione del rischio e dei benefìci dello sviluppo delle
    imprese.
    
     
    Il passo parallelo
    consiste nel rivedere le relazioni sindacali, introducendo il federalismo
    contrattuale. Si deve puntare su di un unico livello di contrattazione, a
    scelta delle parti, di durata annuale o biennale, riformando gli accordi del
    luglio ’93 sulla concertazione, colpevolmente confermati nell’inutile
    patto sociale di D’Alema, non a caso entrato in crisi a pochi mesi dalla
    sua sigla. E’ importante che la parte di remunerazione del lavoro che sarà
    fissata in forma salariale sia assoggettata alla tradizionale contribuzione
    sociale, mentre la parte legata ai profitti o alle performances d’impresa
    – e quindi variabile – dovrà avere un trattamento molto inferiore e più
    simile a quello azionario. Lo stesso trattamento di fine rapporto (Tfr) dovrà
    essere usato per l’azionariato generalizzato dei lavoratori.
    
     
    Grazie al suo migliore
    utilizzo il lavoro può trasformarsi così in una merce scarsa, fortemente
    ricercata dalle imprese. E con la piena occupazione strutturale anche il
    welfare state finisce per trovare un suo nuovo e virtuoso equilibrio, in cui
    prevalgono le “inclusioni” sulle “esclusioni”, gli occupati sui
    disoccupati e inoccupati.
    
     
    Esattamente il
    contrario di quanto hanno sin qui prodotto i governi di sinistra in Italia
    con il sostegno determinante di un sindacato mai così conservatore ed
    egoista.
    
    
     
     
    
    Renato Brunetta  | 
    
    
      
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