Ci
serve ancora la politica?
LA POLITICA NELL'ETA'
DELLA GLOBALIZZAZIONE
di Giovanni
Orsina e Gaetano Quagliariello
Come il prezzemolo, la globalizzazione
condisce ormai ogni minestra. Non vi è dibattito, problema o teoria che
oggi non sia affrontato facendo riferimento alla fine della bipartizione
politica del pianeta, all'integrazione dell'economia mondiale,
all'accelerata circolazione delle informazioni consentita dal progresso
tecnologico. La globalizzazione, insomma, si sta trasformando in una sorta
di "mito laico". La sua onnipresenza, però, non implica affatto
che si stia davvero riflettendo in maniera attenta e approfondita tanto alle
sue effettive caratteristiche - e basti pensare alle sciocchezze che, anche
in luoghi e da persone autorevoli, vengono dette e scritte su Internet -
quanto alle sue possibili conseguenze. E il fatto che sia divenuto
"politicamente corretto" - anzi, necessario - tener conto della
globalizzazione non significa che tale questione sia fittizia o immaginaria,
né che una riflessione sul futuro della politica possa evitare di
confrontarsi con essa. I sintomi della crescente integrazione dell'economia
mondiale, con le sue enormi potenzialità e i suoi rischi, sono
costantemente sotto i nostri occhi: dagli eventi finanziari che hanno
innescato la fase acuta della crisi albanese allo spot pubblicitario che il
governo egiziano trasmette sulla Cnn per attirare imprenditori e
investimenti; dalla diaspora degli operatori economici italiani verso la
Romania (si veda l'inchiesta
di Fausto Carioti pubblicata sul n. 1/1997 di Ideazione) all'ingresso
trionfale dei nostri "capitalisti" nella regione austriaca della
Carinzia.
Così come - al di là delle declamazioni più
superficiali e retoriche - il fenomeno della globalizzazione rappresenta una
componente reale e rilevante del nostro mondo, almeno altrettanto lo sono
gli effetti che esso ha prodotto, e presumibilmente continuerà a produrre,
sul contesto politico e istituzionale dei Paesi occidentali.
Crisi dello Stato, della nazione,
delle ideologie
La trasformazione di più ampia portata, su questo piano,
riguarda probabilmente il ruolo dello Stato. Se prima esso aveva la
possibilità concreta di modificare anche profondamente gli equilibri
economici e sociali, attraverso la gestione della pressione fiscale,
l'imposizione di tariffe doganali, la determinazione della quantità e
qualità della spesa pubblica, la ridistribuzione della ricchezza, la
fornitura diretta di servizi sociali e la garanzia di un livello minimo di
benessere, oggi gli risulta assai più difficile, con questi strumenti,
realizzare mutamenti radicali e significativi. Sia perché le circostanze
oggettive rendono meno efficace la pianificazione pubblica, sia perché tale
pianificazione produce una quantità di conseguenze non volute - e il più
delle volte indesiderate - maggiore che nel passato, sfuggendo così del
tutto al controllo di chi ha cercato di attuarla. Davanti all'aumento del
costo sociale del lavoro, ad esempio, un imprenditore ha adesso un'opzione
che ieri non aveva: seguire il consiglio della Cnn, e trasferire la propria
attività in Egitto.
Oltre ad aver subìto una decurtazione, il potere pubblico
- e si tratta almeno in parte di un effetto connesso con il primo - ha visto
anche diminuite la propria autonomia e la propria discrezionalità. Non
solo, insomma, l'uomo politico può influire di meno sull'esistente, ma, nel
fare quel poco che può, è anche costretto a seguire dei percorsi quasi
obbligati: in sostanza, quelli segnati dalle indicazioni degli
"esperti". L'aumento delle variabili da tenere sotto controllo e i
processi di integrazione a livello internazionale hanno infatti reso sempre
più rilevante la dimensione tecnica delle decisioni, riducendo di
conseguenza l'ambito delle scelte di valore che, da sempre, rappresenta il
terreno specifico della politica. È una realtà che si riflette nelle
ricorrenti polemiche contro la "tecnocrazia", polemiche che non a
caso puntano i propri strali critici soprattutto contro gli organismi
internazionali.
La crisi dello stato causata dall'evoluzione economica
degli ultimi decenni non poteva non riflettersi anche in una crisi della
nazione, della quale, storicamente, lo Stato non ha rappresentato altro che
la traduzione secolare. Il deperimento della dimensione nazionale presenta
due aspetti. In primo luogo, diversamente da quanto è apparso scontato
almeno a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, la nazione ha
cessato di essere una precondizione indispensabile della modernità
politica. Non è più detto, insomma, che i confini dello Stato debbano
coincidere con quelli della nazione, ovvero che una comunità politica debba
essere costituita da un solo popolo, etnicamente e culturalmente omogeneo, e
che, viceversa, un popolo etnicamente e culturalmente omogeneo debba essere
incluso in un'unica comunità politica. Per quanto poco seri e irritanti
possano essere alcuni atteggiamenti del leghismo, non si può far finta di
ignorare che il fenomeno secessionista si sta manifestando nelle aree più
diverse del pianeta, e si candida ad essere uno dei protagonisti del
ventunesimo secolo.
In secondo luogo, sul piano delle identità personali e
collettive, i processi di omogeneizzazione culturale hanno conferito
rinnovata importanza a due dimensioni, l'una superiore, l'altra inferiore
rispetto a quella nazionale. Da una parte ci si sente partecipi di un
patrimonio culturale tanto ampio e diffuso da coincidere con una
"civiltà" - o, al contrario, si prova avversione e senso di
esclusione nei confronti di una "civiltà" diversa -; dall'altra,
e per reazione, si riscoprono radici comunitarie geograficamente molto
circoscritte. Le idee di cittadinanza fondate sull'appartenenza nazionale,
insomma, sono in crisi ovunque.
Il ventesimo secolo è stato caratterizzato, sul piano
politico, dalla nascita e dall'affermarsi di "pensieri forti". Le
ideologie che hanno incontrato maggiore fortuna sono state quelle
finalistiche e totalizzanti, all'interno delle quali, proprio per queste
loro caratteristiche, ha acquisito una posizione centrale e irrinunciabile
il concetto di Stato, fosse esso utilizzato per giungere a risultati
sovranazionali ovvero per sancire il primato della nazione. Come conseguenza
di questo processo, si era verificato il declino dei filoni più
"deboli" del pensiero politico, che avevano invece goduto di una
larga preminenza durante il diciannovesimo secolo. Quel che sta accadendo in
questi decenni di fine secolo sembra quasi una partita di rivincita: le
"ideologie forti" appaiono sconfitte e in ritirata, mentre il
liberalismo vive la sua seconda giovinezza.
Tale situazione - in realtà più complessa di quanto non
si sia finora detto, e sulla quale si tornerà nelle pagine seguenti -
comporta anche una ridefinizione dei modi e degli strumenti dello scontro
politico. Non è un caso che il partito di tipo continentale - strumento che
alle ideologie forniva una traduzione concreta - appaia ormai
irrimediabilmente obsoleto. Perduto il riferimento ideale, il partito non
appare più di alcuna utilità nemmeno come strumento di integrazione, in un
mondo nel quale chi è alla ricerca sul piano sociale di identificazione e
affermazione può utilizzare, per trovarle, innumerevoli altri canali.
Inoltre, l'indebolirsi della tendenza totalizzante ed etica della sfera
pubblica ha privato il partito in larga misura anche della funzione di
mobilitazione e acculturazione politica delle masse. Infine, esso sta
subendo le conseguenze di un fenomeno più ampio e generale: la sfida che la
modernizzazione ha lanciato alla concezione e agli strumenti classici della
rappresentanza politica. Una sfida che della rappresentanza colpisce
soprattutto quegli aspetti, come appunto il partito, che si fondano su una
sedimentazione profonda, ovvero presuppongono un processo di costruzione
lento e prolungato.
Politica senza conflitti?
La globalizzazione economica e culturale e tutti i
fenomeni politici che sono ad essa correlati - dalla ridefinizione del ruolo
dello stato, nel suo duplice aspetto di riduzione e tecnicizzazione, alla
crisi della dimensione nazionale, alla sconfitta delle "ideologie
forti" e degli strumenti ai quali esse si affidavano - stanno
rimodellando la conflittualità politica. Da un lato vi sono tutte le
premesse affinché essa sia meno lacerante, si contenga tutta all'interno di
uno spazio condiviso, e non proponga più alternative radicali fra sistemi
politici, economici e sociali e fra modi di pensare del tutto
inconciliabili. Dall'altro stiamo assistendo a una riduzione del territorio
del conflitto. Diminuiscono, in altre parole, gli ambiti e le questioni che,
in via generale, possono essere affrontati e risolti seguendo più di un
percorso: chiunque conquisti il potere si trova di fronte un'agenda in gran
parte già stabilita, che avrà il potere di modificare solamente nelle sue
pagine più marginali. In altre parole, non solo la distanza fra le due
estremità del sistema tende ad abbreviarsi, ma, soprattutto, la
tecnicizzazione della decisione, sottraendo argomenti al dibattito, rende più
difficile alle diverse forze politiche il compito di distinguersi e farsi
riconoscere. Su queste basi si fondano le argomentazioni di quanti ritengono
che categorie quali "destra" e "sinistra" non abbiano più
alcuna capacità descrittiva e debbano pertanto essere abbandonate.
Non bisogna tuttavia esagerare la novità di questo
fenomeno. Storicamente, infatti, lo spazio tanto della politica quanto della
conflittualità politica ha dimostrato di essere uno spazio a geometria
variabile. In alcuni periodi le possibilità di azione e le opzioni a
disposizione degli attori politici sono state numerose e differenziate, in
altri esse si sono considerevolmente ridotte. La storia politica inglese -
un po' semplicisticamente percepita come il luogo per eccellenza del
bipartitismo - offre numerosi esempi di tale variabilità. Si pensi
all'indebolimento delle neonate fedeltà e divisioni partitiche che si
verificò nell'epoca dorata della Gran Bretagna vittoriana, gli anni
Cinquanta del secolo scorso, in connessione con il grande benessere del
quale godeva la nazione, oppure al governo di coalizione guidato da Winston
Churchill durante il secondo conflitto mondiale, quando le necessità
belliche cancellarono la possibilità di divisioni politiche.
Né la storia politica del continente ha manifestato a
questo riguardo caratteristiche molto diverse. Tra la disfatta di Caporetto
e le prime elezioni politiche post-belliche trascorsero poco più di due
anni; se consideriamo però l'ampiezza e l'intensità del conflitto
politico, i due eventi ci appaiono separati da un abisso. E Charles de
Gaulle, ancora simbolo di unione nazionale alla fine del 1945, si trovava già
coinvolto in una situazione di aspra conflittualità appena un anno e mezzo
più tardi.
L'esperienza storica ci insegna dunque che bisogna
affrontare con molta cautela qualsiasi previsione che decreti in maniera
fatalistica la futura "fine della politica", evitando di
sostituire, agli antichi storicismi positivistici o marxisti, un nuovo
storicismo capitalistico e tecnicistico. Quanto si è finora detto sulla
riduzione degli spazi della conflittualità politica intende semplicemente
identificare una tendenza in atto, la cui presenza non esclude che il breve
periodo possa proporre momenti di scontro anche violento, né, soprattutto,
che il futuro resti anche in questo caso del tutto aperto.
Questa tendenza, tuttavia, ha già lasciato più di un
segno. Uno di essi, del quale si è già detto, è l'appassirsi del partito
di massa di tipo continentale. Bisogna aggiungerne almeno un altro: la
crescente personalizzazione dello scontro politico. In assenza di diversità
ideologiche o programmatiche di grande momento, la discrezionalità degli
elettori potrà esercitarsi soprattutto sulle differenze individuali fra i
candidati o, al più, sulla loro affidabilità di amministratori. Il
conflitto si sposta dal "che cosa si fa" al "chi" lo fa
e "come" lo si fa. Il parziale abbandono del sistema elettorale
proporzionale a scrutinio di lista in Italia può essere letto anche come un
sintomo di tale mutamento. Un altro sintomo è rappresentato dalla crescente
importanza che la vita e le abitudini private dei candidati stanno
acquistando agli occhi degli elettori. Se prima un uomo politico era
valutato innanzitutto per la sua capacità di incarnare un'ideologia, oggi
quel che conta sono soprattutto la sua coerenza, anche privata, e le sue
qualità personali. Per uno strano paradosso, lo slogan dei più radicali
fra i movimentisti degli anni Settanta, "il privato è pubblico",
è stato realizzato da un processo di depoliticizzazione piuttosto che di
politicizzazione.
Libertà e liberalismi
A questo punto del discorso appariranno più chiare le
ragioni per le quali qualche pagina addietro si è sostenuto che questa fine
di secolo sta riportando in auge l'ideologia liberale. E si capiranno anche
i motivi per i quali movimenti e uomini politici dalle storie e tradizioni
più diverse stiano tutti cercando, in competizione gli uni con gli altri,
di appropriarsi dell'etichetta di "liberale" e di accreditare la
propria interpretazione del "liberalismo" come l'unica autentica.
Questa "gara" - comprensibile da un punto di
vista politico, ma del tutto priva di senso sotto il profilo teorico - si
fonda su una concezione dell'ideologia come sistema concettuale coerente e
completo, definibile una volta per tutte e nettamente separato dalle
ideologie concorrenti. Nella realtà tutto ciò non esiste. Non solo le
ideologie si mostrano ricche di incongruenze, contraddizioni e vuoti
teorici, ma si presentano anche come sistemi "elastici",
suscettibili di più letture diverse e spesso addirittura opposte. Proprio
questa "elasticità" consente loro di interagire tanto con il
divenire storico quanto con gli altri patrimoni ideologici, dando spesso
vita a filoni concettuali ibridi, impossibili da classificare entro confini
rigidi e determinati. Come tutte le ideologie, anche il liberalismo presenta
queste caratteristiche.
All'interno del nostro discorso, sono soprattutto due le
"letture" del liberalismo che debbono esser prese in
considerazione. Partendo da un concetto condiviso, quello dell'autonomia del
singolo individuo, il percorso del pensiero liberale si biforca nel momento
in cui cerca di stabilire quali siano i "nemici" di tale autonomia
e, di conseguenza, quali le istituzioni che possono invece tutelarla.
Un primo filone individua nelle organizzazioni scaturite
dalla società civile - chiese, comunità locali, corporazioni, partiti - i
principali avversari della libertà individuale. Guarda dunque allo Stato
come entità in grado di prevenire lo strutturarsi del corpo sociale e di
garantire, attraverso forme di intervento attivo, tanto la sfera del singolo
cittadino quanto la sua educazione alla virtù civile. Per un secondo
filone, invece, è proprio la società civile, nella sua evoluzione
spontanea, a rappresentare il regno della libertà dell'individuo. Rispetto
alla prima "versione", il binomio amico/nemico si presenta con una
polarità invertita: i corpi intermedi, almeno fino a quando non giungano a
ledere i diritti individuali, non suscitano avversione, ed è il potere
pubblico ad esser visto come il vero negatore della libertà. Il primo di
questi due percorsi ideologici, giacobino e liberazionista, ha goduto di una
considerevole fortuna storica sul continente europeo, dove si è contaminato
con il pensiero democratico prodotto dalla rivoluzione francese; il secondo,
invece, confinante da un lato con il conservatorismo liberale, dall'altro
con il libertarismo, è di matrice principalmente anglosassone ed è stato
influenzato dalla democrazia della rivoluzione americana.
La rinnovata fortuna del liberalismo ha comportato la
rivalutazione di entrambe le interpretazioni. La prima, grazie alle sue
propensioni più marcatamente statalistiche e interventiste, ha consentito
agli orfani delle ideologie "forti" di riciclarsi senza rinnegare
troppo del proprio passato. Abbandonato Marx, è stato per essi senz'altro
più agevole e meno traumatico riscoprire Hegel, piuttosto che doversi
ingoiare, d'un fiato, von Hayek. La seconda è quella che ha invece potuto
approfittare delle novità apportate dal processo di globalizzazione. Come
si è detto, infatti, l'evoluzione del quadro economico e culturale
contemporaneo comporta una considerevole riduzione del potere di indirizzo,
controllo e pianificazione dello stato.
Di conseguenza, si allarga lo spazio per
l'autorganizzazione della società e sono incoraggiati e facilitati i
processi di liberalizzazione economica. Per dirla con una battuta, la
globalizzazione sta dando ragione a Burke e torto a Robespierre. Tutto
questo aiuta anche a comprendere per quale motivo i Paesi anglosassoni
sembrino essere quelli che si stanno meglio adattando al nuovo scenario
mondiale. Mentre l'Italia, una nazione che anche durante il suo periodo
liberale ha comunque attribuito allo Stato una posizione di considerevole
rilevanza, incontra oggi enormi difficoltà nell'affrontare la necessaria
conversione della propria tradizione economica e culturale. E un discorso
simile nei suoi tratti fondamentali, sia pure con rilevanti differenze,
potrebbe essere fatto anche per la Francia e la Germania.
Neoqualunquismo e
neocomunitarismo
Questa riflessione sulla diversa posizione
"strategica" nella quale i due liberalismi si vengono a trovare a
cospetto della modernità chiarisce definitivamente l'elemento centrale
della crisi della politica che stiamo oggi attraversando, elemento che è
stato più volte sfiorato nelle pagine precedenti e che è ora tempo di
affrontare compiutamente. Il fallimento del sogno costruttivistico comunista
da un lato, il processo di globalizzazione economica e culturale dall'altro
hanno colpito al cuore la concezione secondo la quale la politica è uno
strumento adatto a trasformare la società secondo un piano ottimistico e
razionale, concezione "giacobina" che cominciò ad accreditarsi
nel 1789 e fu rilanciata con forza nel 1917. È questa la dimensione della
politica che sembra oggi sconfitta, mentre appare alquanto semplicistico
trarre da questi eventi la conclusione che sarebbe la politica tout court a
essere finita. Fra i molti sui effetti, il brusco risveglio dal sogno
illuministico che attribuiva allo Stato poteri quasi miracolosi e gli
chiedeva di trasformare radicalmente il mondo ha avuto quello di rendere
molto meno tollerabile il peso delle strutture ingombranti e costose delle
quali lo Stato, in virtù di quel sogno, si era dotato.
L'ipertrofia degli apparati statali - burocrazia, enti
pubblici, partecipazioni statali - e politici - partiti e sindacati -
derivava la propria legittimazione dalle diffuse aspettative di
trasformazione e miglioramento che lo Stato e la politica avevano
alimentato. Essa ha perduto però qualsiasi giustificazione, ed è anzi
divenuta insopportabile, nel momento in cui gli elementi progettuali e
finalistici della politica sono entrati definitivamente in crisi. Questo
processo di rigetto è stato reso ancor più violento e radicale dalla
delusione che la mancata realizzazione delle smisurate promesse fatte in
origine ha ingenerato. Una delusione che continua a essere tuttora
alimentata, poiché sono ancora molti quelli che sperano nell'avvento del
"Messia politico", che non si sono resi conto fino in fondo di
quanto sia diminuita la capacità del potere pubblico di incidere sulla
realtà.
La reazione contro le modalità tradizionali di gestione
dello Stato e della politica si sta manifestando prevalentemente attraverso
due fenomeni: l'emergere di un nuovo qualunquismo e la riscoperta di valori
locali e comunitari. La componente critica del neoqualunquismo consiste nel
rifiuto degli eccessi burocratici e normativi e nella marcata insofferenza
verso sprechi, inefficienze e corruzione. La componente costruttiva è
invece rappresentata da una maggiore attenzione verso i princìpi della
buona amministrazione, nonché da uno spiccato pragmatismo, che porta a
concentrarsi sugli aspetti più quotidiani e concreti del contatto con il
potere pubblico e a mal sopportare i sacrifici richiesti in vista di future
realizzazioni, avvertite ormai come sempre meno probabili. Il
neocomunitarismo scaturisce dalla medesima insoddisfazione che ha generato
il neoqualunquismo, e per molti aspetti si confonde con esso. In questo
caso, la reazione contro l'ipertrofia immotivata del potere pubblico si
manifesta attraverso la riscoperta delle comunità locali e dei valori che
esse esprimono, e il desiderio di salvaguardare l'autonomia della
"periferia" dai tentativi di omogeneizzazione forzata che
provengono dal "centro". L'avversione nei confronti dello stato si
somma così con il rifiuto della nazione.
L'evoluzione della politica che è stata appena descritta
ha contribuito a rendere la frattura fra governati e governanti più
rilevante rispetto a quella fra governanti di "destra" e
governanti "di sinistra". Lo sviluppo delle strutture burocratiche
statali e politiche e la sempre più marcata specializzazione e
tecnicizzazione dei processi decisionali e gestionali hanno determinato il
formarsi di una classe dirigente compatta, che trova nella conservazione del
proprio potere e dei privilegi ad esso collegati un interesse molto più
forte di qualsiasi divisione ideologica o partitica. La nascita di questa
"nuova classe" può essere percepita con particolare chiarezza nei
Paesi che possiedono una tradizione amministrativa forte. L'opposizione che
sta montando in Francia contro l'École Nationale d'Administration - vivaio
unico del personale politico-amministrativo tanto di destra quanto di
sinistra - rappresenta in tal senso un esempio indicativo. I sistemi
politici appaiono sempre meno attraversati da scissioni verticali, che
coinvolgono tanto le élites al potere quanto i cittadini comuni - ad
esempio, come si è accennato, la classica divisione fra destra e sinistra -
e sempre più da una linea di frattura orizzontale, che separa tutti i
cittadini da una "nuova classe" percepita come un'entità coesa e
politicamente indifferenziata.
Questo fenomeno è ovviamente favorito anche
dall'attenuarsi dello scontro ideologico. Se la classe politica è divisa,
infatti, i singoli gruppi che la compongono avranno interesse a consolidare
il proprio rapporto con i cittadini, dal momento che le "radici"
popolari possono rappresentare una risorsa da utilizzare nello scontro
politico. Venendo meno le divisioni questo interesse scompare, e si
approfondisce invece la distanza fra governanti e governati. Anche
l'emergere di spaccature orizzontali piuttosto che verticali, d'altra parte,
non rappresenta una novità assoluta. Pure in questo caso, infatti, è
possibile far riferimento a diversi precedenti storici e, soprattutto, a
svariate teorie che di tali precedenti hanno tenuto conto: ad esempio al
pensiero dei cosiddetti elitisti, e in particolare alle riflessioni che
Gaetano Mosca ha consacrato alla classe politica e Vilfredo Pareto alla
circolazione delle élites.
Un'agenda per la nuova politica
Un osservatore che sia schierato sul versante anglosassone
dell'ideologia liberale non può fare a meno di guardare con favore alle
dinamiche storiche che sembrano attraversare questa fine di millennio,
scorgendovi una grande opportunità per la realizzazione dei propri ideali
politici. Per la prima volta il continente europeo potrebbe riavvicinarsi
alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Quello che per comodità abbiamo
chiamato "liberalismo anglosassone" ha infatti vinto una partita
"esterna" con le ideologie concorrenti - in primo luogo il
comunismo -, e ne sta vincendo una "interna" con la versione
alternativa di liberalismo, grazie allÕassoluta preminenza che la
globalizzazione economica e culturale sta consegnando ai meccanismi
spontanei della società civile rispetto alle virtù del dirigismo statale.
Bisogna, d'altra parte, diffidare del troppo facile ottimismo, e considerare
con attenzione i rischi che questi processi evolutivi portano con sé.
In primo luogo, per quanto radicale e libertario possa
essere un liberale, e per quanto acuta sia la sua sofferenza nel non potersi
dire anarchico, non potrà comunque augurarsi la completa scomparsa dello
Stato. Ci sono delle funzioni che uno Stato liberale deve svolgere, sia come
controllore sia come contropotere, e il pericolo che il divenire storico lo
porti invece a smarrire anche questi compiti minimi è reale. In secondo
luogo, l'elemento tecnico presente nella decisione politica potrebbe finire
per acquisire un'importanza assoluta, paradossalmente proprio nel momento in
cui si sta definitivamente consumando qualsiasi fiducia nell'oggettività
della scienza. Parallelamente, lo spazio per la conflittualità politica
potrebbe ridursi a tal punto da scomparire, e una società liberale, per
quanto diffidente nei confronti degli scontri ideologici radicali, non può
comunque fare a meno di un tasso normale di competizione. La
tecnicizzazione, d'altra parte, rende ancor più pressante e rilevante il
problema del controllo sul potere, e la presenza di una contrapposizione fra
élites rappresenta la prima e la più efficace forma di tale controllo.
Questi esiti sarebbero tanto più dannosi in quanto, come si è detto, sia
la crescita di importanza della componente tecnica della decisione politica,
sia il dissolversi delle divisioni interne allÕélite possono determinare
la crescita di un'opposizione radicale, populistica e antipolitica.
L'assenza di divisioni fisiologiche, insomma, può causare il formarsi di
divisioni patologiche.
Perché le circostanze di questi anni portino alla
compiuta realizzazione delle premesse liberali che si stanno manifestando,
sarà dunque necessario scongiurare i pericoli che abbiamo appena
presentato. Tale operazione comporta la soluzione di due questioni
fondamentali, tra di esse collegate: la regolamentazione del conflitto e il
ripensamento degli strumenti e delle istituzioni della rappresentanza. Per
quanto riguarda il primo aspetto, si tratta, come si è già accennato, di
trovare il giusto punto di equilibrio fra l'eccessiva radicalizzazione della
competizione politica da un lato e la sua assenza dall'altro. Ovvero, sarà
necessario includere tutte le opzioni politiche nel sistema - o minimizzare
il peso di quelle che intendono rimanerne fuori -, garantendo allo stesso
tempo che all'interno di esso continui ad esservi almeno una linea
fondamentale di conflitto.
Questa operazione comporta la riacquisizione alla politica
tanto del neoqualunquismo quanto del neocomunitarismo, riacquisizione che
potrà passare attraverso il recupero delle loro istanze genuinamente
liberali da parte di una forza politica nuova o rinnovata. Per quanto
riguarda il secondo aspetto, bisognerà ripensare le istituzioni politiche
democratiche e adeguarle alle esigenze della modernità, ovvero sanare la
frattura che si sta aprendo fra la "nuova classe" e i governati.
Un primo obiettivo di tale riforma dovrà essere quello di agevolare
l'esprimersi della conflittualità, la cui esistenza, come si è detto,
rappresenta un importante antidoto all'insorgere di scissioni orizzontali.
Non si può però pensare che l'esistenza di uno scontro fra le élites
politiche sia sufficiente a scongiurare il rischio che si formi una
"nuova classe" e, più in generale, a garantire la democraticità
delle istituzioni. La crisi politica che ha colpito quei Paesi occidentali
nei quali pure i meccanismi di alternanza al potere sono attivi da sempre
rappresenta in tal senso un dato emblematico.
La riforma dovrà quindi essere di più vasta portata. Non
è certo questa la sede per affrontare tale problema; basti, in via
conclusiva, ricordare che il riavvicinamento geografico fra governanti e
governati, il rafforzamento dei meccanismi di controllo democratico sul
potere, la rielaborazione degli strumenti di democrazia diretta, e infine la
riconsiderazione dei tempi e delle modalità del ricambio delle élites
sembrano i quattro ambiti con i quali la politica dovrà confrontarsi
all'inizio del prossimo secolo.
Giovanni
Orsina e Gateno Quagliariello |

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