Gran
bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
PIONIERI VENETI
ALLA FIERA DELL'EST
di Fausto Carioti
In Romania. E' lì
che se ne vanno molti dei nostri imprenditori, soprattutto quelli del
tessile e del calzaturiero. Sono così tanti che la Alpi Eagles ha fatto
un collegamento apposta per loro, che in poco più di un'ora li porta
vicino Timisoara.
Chi parla è Leonardo
Canal, il responsabile per i rapporti con la stampa della Unindustria di
Treviso, frutto della fusione - caso unico in Italia - tra la Confindustria
e la Confapi trevigiane. Quanto ad Alpi Eagles, è la compagnia aerea
privata messa in piedi da un gruppo di industriali veneti. E' operativa da
poco, ma è già finita sulle prime pagine dei giornali. E' successo ad
ottobre quando, sul volo Venezia-Roma, si è aperto il portellone e una
hostess ha rischiato di finire nel vuoto. L'ha afferrata all'ultimo momento
il presidente del Vicenza Calcio, Gianni Sacchetto. Un bel miracolo, si è
sfiorata la tragedia. Panico tra i clienti della compagnia? Valanga di
prenotazioni disdette? Macché. Per mettere paura ai pionieri veneti ci
vuole ben altro. La guardia di Finanza, la tassa sull'Europa: questi sono i
pericoli da evitare. Via, via dall'Italia.
Parte tutti i giorni
dispari, a mezzogiorno, dall'aeroporto "Valerio Catullo" di
Verona, l'aereo del miracolo veneto che se ne va. Destinazione Arad,
capoluogo del distretto di Bihor e centro commerciale da 250mila abitanti,
schiacciato tra i Carpazi occidentali e il confine ungherese. All'arrivo,
sbrigate le pratiche alla dogana, un pullmino della Alpi Eagles accompagna i
passeggeri fino a Timisoara o ad Oradea, dove si trovano i maggiori
distretti industriali rumeni. Niente donne o quasi, tra i passeggeri
dell'aereo. Le hostess spiegano che i viaggiatori sono di due categorie: gli
imprenditori - quasi tutti veneti, qualcuno lombardo - che il week end
tornano in Italia, e i cacciatori, che fanno il cammino opposto. Questi
ultimi, a loro volta, si dividono tra cacciatori di selvaggina e
"cacciatori" di donne rumene, pare con una certa prevalenza dei
secondi. C'è un'altra categoria, pure numerosa: i tecnici italiani che
fanno avanti e indietro per curare le attrezzature italiane delle imprese
italiane in Romania.
Gregorio Scolaro,
cinquant'anni, viene da Montagnana, in provincia di Padova. E' uno dei tanti
passeggeri abituali del volo Verona-Arad:
Sono qui ogni
due o tre settimane. Passo in Romania una decina di giorni al mese,
racconta. Lui il
viaggio lo fa per lavoro.
Faccio
l'imprenditore da 23 anni. Prima ero contadino. Fabbrico ombrelloni da
sole, ombrelloni pubblicitari, articoli da giardino ed arredamento.
Soprattutto in legno, ma anche in ferro, plastica e tessuto.
Così oggi l'ex
contadino fattura 20 miliardi l'anno e dà lavoro a 170 persone nel Veneto.
In Romania ha cominciato a lavorare due anni fa, commercializzando i
prodotti degli altri. Pochi mesi, quanto basta per guardarsi attorno, fare
due conti, e poi via con la produzione in proprio.
Con i miei
prodotti ho iniziato un anno fa, non appena ho trovato i primi spazi
produttivi. Ad Alba Iulia, al centro della Transilvania, ho creato una
ditta con due milioni di dollari di capitale sociale. Si chiama Scolarom.
Gli affari? Vanno bene, grazie.
Cosa spinge uno che ha
fatto fortuna nel mitico Nord-Est, la zona più europea d'Italia e forse
dell'Europa stessa, a venire a dannarsi l'anima in Romania, dove i treni non
arrivano e la carta igenica, quella ruvida, è un bene di lusso?
Il discorso è
semplice: io esporto quasi tutto il mio prodotto in Europa, comprese
Russia ed Ucraina, e i miei clienti comprano in tutto il mondo. Per essere
competitivo, devo produrre a basso costo. Qui in Romania il costo della
manodopera è quindici-venti volte inferiore a quello italiano, ed anche
le materie prime costano molto meno. E poi ho scoperto che questo Paese è
anche un mercato in cui vendere, non solo un luogo dove produrre. Vede, le
fabbriche rumene non fanno prodotti di buona qualità. Qui hanno un
problema: mancano gli imprenditori. Nei Paesi dell'Est ci sono molti
operai e molti burocrati. Ma imprenditori, niente. E allora...
E allora tocca a chi
ci sa fare.
Sì. Ma prima
occorre capire come si lavora qui. E questo non è facile. La cosa
importante, per fare affari con queste persone, è curare i rapporti
umani.
Ignorati da tutti,
anche dalle autorità rumene ("Per loro esistiamo solo per pagare
le tasse"), ai pionieri veneti alla conquista dell'Est non resta
che la dote più elementare di ogni imprenditore: l'arte di trattare con il
prossimo.
Pochi qui hanno
le idee chiare su come funziona la faccenda. Molti cercano il partner
rumeno, ma questo è l'errore più grosso. Gli italiani sono convinti di
pensare ai propri affari, ma anche i rumeni pensano ai propri. Così
spesso, appena fatta una società mista, il socio italiano e quello rumeno
litigano. E' un errore anche affidare la direzione della fabbrica ai
rumeni. La direzione deve essere di tipo occidentale. Io ho trovato rumeni
bravi che mi fanno la contabilità, ma non è stato facile. Ecco perché i
rapporti umani sono importanti.
Forte di questa
filosofia, Gregorio punta tutto sulla sua nuova Patria.
Sto mettendo su
una falegnameria. Sto facendo anche un progetto Job, uno di quelli della
Comunità europea, con il quale la mia ditta in Italia sta per ottenere un
prestito per finanziare il progetto che porto avanti qui in Romania. Ho
avuto l'approvazione per costituire una società per azioni con tre
miliardi e mezzo di capitale sociale, ed il settanta per cento mi viene
finanziato dalla Comunità europea a basso tasso d'interesse.
Da buon contadino,
Gregorio ha imparato che non si butta via niente. Neanche l'esperienza. Ed
ha capito che per fare consulenza d'impresa non è necessario chiamarsi
Arthur Andersen. Soprattutto in Romania.
Ora stiamo
sviluppando una nuova attività: compriamo aziende statali e capannoni a
basso costo, per poterli rivendere agli altri operatori, fornendo anche
assistenza commerciale ed amministrativa. Sa, in questi anni abbiamo
acquisito una buona esperienza, e possiamo utilizzarla per gli altri.
Magari anche per favorire quell'indotto che serve alla nostra attività. A
proposito, se conosce qualcuno interessato....
Just
in time
Fa ancora gli
scongiuri Luigi Di Rupo.
Sull'Antonov
della Banat Air che cadde il 13 dicembre del '95 dovevo esserci anche io.
Ma mia figlia mi costrinse ad andare dal dentista, perché era già la
terza volta che spostavo l'appuntamento. E' stato un miracolo. Adesso, se
l'aereo sul quale devo volare è un Antonov, resto a terra e non parto. Ma
ne ho prese di quelle carrette, per andare da Bucarest ad Oradea, prima
che ci fosse il volo diretto da Verona. Spesso all'aeroporto di Bucarest
ci dicevano che l'aereo non poteva partire, perché ad Oradea c'era
nebbia. Tutto falso: la verità? Il pilota era ubriaco. Che roba....
Qui in Romania, Luigi,
che viene da San Giovanni Larione, in provincia di Verona, è un veterano.
Ho iniziato
cinque anni fa, come tecnico di una ditta italiana di scarpe. Davamo il
lavoro in appalto alle aziende statali rumene. Si andava lì con
l'articolo in mano, lo si faceva vedere ai rumeni e si stabiliva la
fornitura ed il prezzo. Il controllo tecnico lo fornivo io assieme ad un
altro italiano, perché volevamo un prodotto qualificato. Poi, sa come
vanno queste cose... ho visto che qui si può lavorare bene, fare soldi, e
così due anni fa, assieme alla ditta per cui lavoravo e ad altri due soci
italiani, abbiamo messo su un'azienda per fabbricare scarpe. Si chiama
Ambra.
Come quella di Canale
5?
Proprio così.
Vanno bene gli affari,
alla Ambra srl.
Non mi lamento.
Facciamo circa tremila paia di scarpe al giorno. Lavoriamo anche per conto
di altre due aziende italiane. Il nostro prodotto si vende anche in
Germania, Francia, Belgio, Inghilterra... un po' dappertutto.
Un buon successo, a
fronte di un investimento minimo: in tutto, i quattro soci della Ambra hanno
investito in Romania circa trecento milioni. I macchinari li hanno presi
usati dall'Italia.
Sono sempre
molto più moderni di quelli rumeni,
assicura Di Rupo.
Guadagnerà pure bene,
l'imprenditore italiano ad Oradea, ma non fa una gran bella vita.
Si sgobba,
altroché. Gli operai fanno i turni, noi no. Si comincia alle sei del
mattino e si chiude alle dieci di sera. Bisogna essere sempre lì, a
controllare gli operai rumeni. Se salta la vite di un macchinario, quelli
smettono di lavorare e bloccano tutto il processo. Per fortuna mi alterno
col mio socio, e faccio la spola tra l'Italia e la Romania. Sì, è dura
lontano dalla famiglia. Se potessimo ce ne staremmo in Italia.
Vita dura, vita da
pionieri. Viene da chiedergli chi gliela fa fare, visto che l'alternativa
sarebbe comunque restare nel mitico Veneto del boom. Dove si lavora bene. O
no?
Dalle nostre
parti si lavora ancora bene, ma qui siamo più competitivi come prezzi,
perché c'è molta mano d'opera. E la mano d'opera in Italia costa troppo.
Certo, il lavoratore rumeno produce meno: in Italia, con venti persone si
potevano produrre un migliaio di paia al giorno. Qui, con venticinque
lavoratori, ne produco ottocento. Ma la differenza di costi rimane. Poi
qui non ci sono problemi di sindacalizzazione e di tensioni in fabbrica,
anche perché noi privati paghiamo bene, più di quanto facciano le ditte
di Stato. La verità è che può permettersi di fabbricare in Italia solo
chi fa scarpe di un certo prezzo. Gli altri, se vogliono continuare, sono
costretti a scappare.
E Oradea è quasi una
scelta obbligata.
E' vicina al
confine ungherese, i camion fanno presto ad arrivare alla dogana. In
tutto, in questa zona, noi italiani faremo qualcosa come 40mila paia di
scarpe al giorno. Anche di più.
Tra dipendenti e
terzisti, lavorano per la Ambra circa 350 persone. Con qualche senso di
colpa da parte di Di Rupo.
Dispiace davvero
dare lavoro in Romania quando si potrebbe farlo in Italia. Ma se i
politici non riducono tutto quello che appesantisce la busta paga, i
disoccupati non potranno che aumentare. L'azienda per cui lavoravo come
tecnico negli anni Settanta produceva circa 18mila paia di scarpe al
giorno. Adesso è chiusa. Pensi a quante persone dava da mangiare, e si
faccia i conti di quanta ricchezza è andata perduta.
La leggenda vuole che
le aziende tedesche non si spostino mai da sole. Dopo poco arrivano anche la
Deutsche Bank e i funzionari governativi, che hanno il compito di
"spianare la strada" agli industriali. E gli italiani?
Siamo allo
sbaraglio. Non abbiamo nessun appoggio dall'Italia. Ogni tanto siamo
costretti a chiedere una mano a qualche parlamentare, quando non riusciamo
ad ottenere i documenti che ci servono. Per il resto, niente di niente. Ma
ormai ci siamo abituati. Anche nei rapporti con le autorità romene siamo
lasciati a noi stessi.
Il modo per
intendersi, comunque, l'hanno trovato.
Qui le ruote
vanno unte. In dogana, ad esempio. Spesso bloccano la spedizione e dicono
che c'è un problema. "Quale?Ó, gli si chiede. "ProblemaÓ,
rispondono. Così tocca sganciare cento marchi, e non ci si fa in tempo a
girare che il camion è già uscito. Stesso discorso per la Finanza. Qui
non è come in Italia: da gennaio ad oggi l'avremo avuta cinque o sei
volte. Ogni volta ricominciano i controlli dall'inizio. E ogni volta
occorre trovare il modo per metterci d'accordo.
Come molte aziende
italiane, l'Ambra ha importato in Romania l'uso massiccio di terzisti,
caratteristica vincente dell'impresa veneta.
Tutte le materie
prime arrivano dall'Italia. Il resto lo facciamo in Romania. Della
tagliatura ce ne occupiamo direttamente, perché se la diamo da fare ai
rumeni provano sempre a rubarci qualcosa. Ma subito dopo subappaltiamo il
lavoro a giunterie rumene, alla quali spesso abbiamo dato noi stessi in
prestito le macchine da cucire. Ci riportano il prodotto cucito ed orlato.
Quello che rimane del lavoro, fino al prodotto finito, lo facciamo noi in
fabbrica. Solo le tomaie più difficili, una piccola quantità, le
mandiamo a lavorare in Italia.
E l'etichetta Made in
Romania?
Niente, nessuna
etichetta sulle nostre scarpe. Al limite, quando possiamo, scriviamo Made
in Italy sulle suole.
Parola d'ordine:
produzione rapida e flessibile. La scarpa impiega solo dieci giorni per
essere lavorata ed immessa sul mercato.
Ho scaricato
materiale per duemila paia di scarpe venerdì scorso, sette giorni fa, ed
oggi ho rispedito il prodotto finito in Italia. Lunedì il carico è a
Verona, pronto per andare nei negozi.
Avessero mezzi di
trasporto più veloci, Di Rupo e gli altri se la sbrigherebbero in meno di
una settimana. La filosofia del just in time, inventata dagli americani, ha
raggiunto la sua apoteosi lungo la nuova frontiera dell'Est Europa. Fino a
quando?
Per altri cinque
anni, forse dieci, ci si potrà stare, poi anche qui sarà finita, e
dovremo trovare mercati che ci daranno la possibilità di lavorare a basso
costo da qualche altra parte. Il mercato russo è buono, anche come sbocco
per le merci. Lì si vendono bene gli stivali. Ma sono in pochi quelli che
si fidano, a causa dell'instabilità politica. Giusto chi ha canali molto
buoni si avventura fin laggiù. Qualcuno sta già guardando alla Bosnia,
ma chi ha il coraggio? Io no, almeno per ora. Tra qualche tempo, chissà.
Non è richiesta
alcuna esperienza particolare e non devi avere un'età stabilita. Ma se
hai voglia di lavorare e di diventare qualcuno nella tua professione, noi
possiamo aiutarti.
Annunci del genere,
sui giornali italiani, ormai riguardano solo i venditori di enciclopedie
porta a porta. Ma nella Romania che si converte al libero mercato, niente di
strano se l'offerta è seria e prevede uno stipendio fisso. Specie se a
farla apparire su Crisana, cotidian independent del 19 novembre 1996, è la
Corneliani, azienda italiana d'abbigliamento maschile d'alta qualità.
AAA
lavoratori cercansi
La lista delle imprese
italiane sbarcate in Romania non comprende infatti solo illustri miliardari
sconosciuti, ma anche alcuni tra i più bei nomi dell'imprenditoria
italiana. Sono fatte in Romania le scarpe Lumberjack, quelle della Lotto e
della Diadora, che appaltano parte della lavorazione a terzisti rumeni. Alla
Corneliani, invece, hanno scelto un'altra strada. Creata nel 1930 da Alfredo
Corneliani, oggi l'azienda esporta fuori dall'Italia oltre il 30% della
propria produzione. Nei suoi due stabilimenti di Mantova e Verona trovano
lavoro più di 1400 persone. Ma per il futuro, Claudio, Carlalberto e
Corrado Corneliani, gli eredi del fondatore, hanno deciso di puntare sulla
Romania. Così, nel settembre del '95, alla periferia di Oradea è nato un
moderno capannone industriale.
Mi raccomando,
non faccia confusione con gli altri imprenditori italiani che sono venuti
qui in Romania. Corneliani è un'altra cosa,
dice preoccupata per
l'immagine della casa madre la signora Luminita Paval, che pensa alla
direzione dello stabilimento quando non ci sono i proprietari italiani. E
snocciola una dietro l'altra tutte le differenze tra Corneliani e "gli
altri".
Innanzitutto
- spiega in un ottimo italiano - tutto quello che vede in questo
stabilimento, dagli impianti di sicurezza ai vetri ai condizionatori
d'aria, viene dall'Italia, così come sono italiani gli standard di
sicurezza. E poi che i Corneliani facciano sul serio si vede dal fatto che
non hanno creato una srl come gli altri, ma una società per azioni con un
capitale sociale di oltre un milione e mezzo di dollari. Hanno investito
anche in formazione: pensi che i primi venti dipendenti rumeni assunti
hanno seguito un corso di sei settimane nelle sede Corneliani in Italia.
La joint-venture che
gestisce l'impianto si chiama Sogema, e vede tra i suoi azionisti, accanto
ai Corneliani, anche un socio rumeno, la Ily Company di Bucarest.
Ma quello lì
non conta niente, ha lo 0,01%
ridacchia Luminita,
quasi a volersi sbarazzare di una presenza ingombrante. Per ora lo
stabilimento, che produce solo per F.lli Corneliani, conta 110 dipendenti.
Pochi, ma destinati ad aumentare.
In un'intervista
apparsa su un altro quotidiano locale, Corrado Corneliani, amministratore
dello stabilimento di Oradea, ha detto che l'investimento in Romania è
strategico, e che l'idea base dell'iniziativa è
ottenere un
risultato che premi la nostra società e, al tempo stesso, sia di utile
esempio per le nostre maestranze e per l'imprenditoria estera e locale
seriamente intenzionata ad investire nel nostro Paese.
Anche in Romania la
buona pubblicità inizia dai rapporti con la stampa.
Cacao
made in Romania
Uno pensa alla
mondializzazione dei mercati e le immagini che gli vengono in mente sono le
fabbriche di Singapore, gli schermi dei computer su cui vengono siglate
trattative internazionali via Internet, le Borse di Tokio e New York...
Insomma, è difficile accostare la globalizzazione dei mercati alla
periferia di Oradea, cittadina rumena da 250mila abitanti. Invece è proprio
qui, da un fatiscente stabilimento industriale firmato Ceausescu, che Gianni
Bellè dà ogni giorno il suo piccolo contributo alla globalizzazione.
Sono arrivato in
Oradea nel novembre del '92. Siamo stati tra i primi. Dopo di noi, c'è
stata la processione.
Racconta che la prima
volta che con suo figlio ha messo piede in Romania ci è rimasto quattro
mesi, che gli sono serviti per farsi esperienza.
Tornati in
Italia, ci siamo messi d'accordo con la Cacao, una della principali società
italiane di abbigliamento per bambini, della quale eravamo terzisti quando
lavoravamo in Veneto. Così, dopo poco, eravamo di nuovo in Oradea, dove
abbiamo dato vita alla Belconf, società a responsabilità limitata. Piero
Comunello, proprietario della Cacao, ha messo i capitali, noi la nostra
esperienza. Abbiamo preso in affitto un capannone, poi un altro, ed
abbiamo iniziato a fare conto lavorazione per alcune aziende italiane.
Solo dopo una stagione abbiamo iniziato con il prodotto Cacao. Il rodaggio
è stato necessario perché quello Cacao è un buon prodotto, bene
inserito nella fascia medio-alta. Adesso lavoriamo anche per un altro
grande gruppo italiano di abbigliamento femminile.
Del resto alla Cacao,
azienda che oggi fattura circa 40 miliardi, la delocalizzazione produttiva
è una vecchia abitudine. I Comunello è da molto che girano per il mondo
alla ricerca di mercati più convenienti dove produrre. Sono stati tra i
primi a sbarcare a Taiwan, in Portogallo, in India ed in Thailandia. Proprio
in questi mesi, racconta Bellè, i suoi soci stanno valutando un'offerta
arrivata dalla Cina.
Proposte simili
ne sono giunte da molti Paesi, e continuano ad arrivare,
assicura.
Quello che fanno qui
alla Belconf, in linguaggio tecnico si chiama Tpp, traffico di
perfezionamento passivo. In soldoni, spiega Bellè, vuol dire che
importiamo in
Romania le materie prime dall'Italia, facciamo il semilavorato e lo
reimportiamo in Italia.
Non sono i soli. Il
Tpp è la forma di collaborazione più diffusa tra le aziende italiane e
quelle con sede in Romania. Difficile avere una stima dell'entità del
fenomeno. Ci ha provato Alessandro Crescini, studente di Scienze politiche
ed allievo del professor Maurizio Mistri all'Università di Padova. Secondo
i suoi dati, nell'80% dei casi questa forma di subappalto su scala
internazionale riguarda il settore tessile-abbigliamento, seguito dal
calzaturiero con il 15%. Il Veneto è la regione che più ricorre al Tpp,
con una quota sul totale pari al 38,07% nel primo semestre del '96. Seguono
Lombardia ed Emilia Romagna con percentuali, rispettivamente, del 24,75 e
del 10,56%. Quanto ai Paesi che ospitano la lavorazione, Crescini mette al
primo posto proprio la Romania, che nel 1995 ha ottenuto il 38,5% delle
lavorazioni per il tessile e l'abbigliamento subappaltate all'estero dalle
aziende italiane.
Bellè è convinto che
una scelta simile sia obbligata.
Produrre qui
vuol dire avere costi ben diversi da quelli italiani. Se il prodotto fatto
in Italia ci costa 100, qui spendiamo 30 o 40. E adesso i costi sono in
rialzo, perché qui in Oradea siamo troppo vicini all'Ungheria, che è una
realtà già più avanzata. Per risparmiare ulteriormente, dovremmo andare
più all'interno.
Anche qui fisco e
previdenza sociale fanno la loro parte.
Per avere in
mano 400mila lei (la moneta rumena), circa 170mila lire, i lavoratori
rumeni devono ricevere uno stipendio lordo di 700mila lei, dato che sulla
loro busta paga grava un 40% di imposte che lo Stato preleva alla fonte. A
sua volta il datore deve sborsarne più di un milione, visto che il 40% di
questa cifra è destinata ai contributi per la pensione e ad altri oneri
sociali.
A conti fatti, però,
conviene sempre. Il neo è uno solo: la qualità della manodopera.
Questo è
l'unico, grande problema che abbiamo incontrato in Romania. Vede, qui si
produce a buon prezzo, ma con scarsi risultati qualitativi. Occorre sudare
per ottenere la qualità necessaria ad un prodotto destinato al mercato
italiano.
Un altro problema, per
la verità, ci sarebbe: la burocrazia rumena. Che, quanto a ottusità, se la
gioca alla pari con quella italiana. Ma la soluzione è a portata di mano.
Le faccio un
esempio. Gli stabili in cui lavoriamo sono del gruppo industriale
Premagro. Se servono dei lavori di ristrutturazione, è alla Premagro che
mi devo rivolgere. La prima risposta che mi viene data è sempre un
"noÓ. Se invece allungo qualcosa, tutto si risolve. Questa è la
prassi.
Anche la Belconf fa un
uso intensivo dei terzisti.
Abbiamo 250
persone all'interno della fabbrica, e diamo lavoro ad altrettante
nell'indotto. Ci sono laboratori e ditte rumene che lavorano solamente per
noi. Offriamo lavoro continuativo e forniamo l'assistenza dei tecnici
italiani. Chi lavora per noi, cresce ed impara a fare un buon prodotto.
Così, mentre il
mercato italiano si restringe, la Belconf aumenta la produzione ad un ritmo
taiwanese.
Abbiamo iniziato
con diecimila capi l'anno, poi siamo passati a 60mila, a 120mila... Adesso
siamo sugli 800mila capi, e la prossima stagione ne produrremo un milione
e 200mila.
Niente ipocrisie: Bellè
sa benissimo che a questo crescendo corrisponde un taglio della produzione
in Italia. E quindi dei posti di lavoro.
La cruda verità
è che il lavoro che facciamo qui prima era fatto in Veneto. Quindi, alla
fine, in Italia ci sono posti di lavoro in meno. Ma questo accade prima di
tutto perché non è stata fatta alcuna politica di creazione
dell'occupazione, soprattutto per le aziende artigiane. Queste le hanno
fatte morire i governi con le tasse, ma hanno contribuito anche i
sindacati, sia quelli dei lavoratori che i nostri sindacati di categoria,
che ci dovevano garantire e che invece non hanno fatto la loro parte.
Alternative, insomma,
Bellè giura che non ne aveva.
Abbiamo dovuto
chiudere, siamo stati costretti a scappare dall'Italia. Chi è riuscito a
farlo rimanendo in piedi, come noi, è stato fortunato. Ma molti hanno
perso tutto, anche quello che si erano costruiti venti anni prima.
Niente di strano,
quindi, se oggi tutti i progetti di Bellè sono ambientati in Romania. E se
tiene più a Costantinescu che non a Prodi e Berlusconi.
Cercheremo di
espandere la nostra produzione in Oradea. Abbiamo in programma la
creazione di uno stabilimento tutto nostro. Certo, molto dipende da come
cambierà questo Paese. Dalle ultime elezioni, la Romania ha un nuovo
governo. Iliescu era da tutti i punti di vista l'erede di Ceausescu.
Costantinescu ha promesso agevolazioni per gli imprenditori. A me sembra
una brava persona. Vedremo cosa riuscirà a fare. Ecco, questo è il
grosso punto interrogativo sul futuro della Romania. E sul futuro di chi,
come noi, lavora e produce qui.
Post scriptum: dieci
anni fa, nello stesso stabilimento che ospita la Cacao, l'industria di Stato
Premagro fabbricava armi per il regime di Bucarest. Oggi dai capannoni
escono tutine e maglioncini colorati per bambini, e gli stipendi dei
lavoratori rumeni sono migliorati. Chi ha detto che il mercato è senza
cuore?
Fausto
Carioti |