Gran bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
PIONIERI VENETI
ALLA FIERA DELL'EST

di Fausto Carioti

In Romania. E' lì che se ne vanno molti dei nostri imprenditori, soprattutto quelli del tessile e del calzaturiero. Sono così tanti che la Alpi Eagles ha fatto un collegamento apposta per loro, che in poco più di un'ora li porta vicino Timisoara.

Chi parla è Leonardo Canal, il responsabile per i rapporti con la stampa della Unindustria di Treviso, frutto della fusione - caso unico in Italia - tra la Confindustria e la Confapi trevigiane. Quanto ad Alpi Eagles, è la compagnia aerea privata messa in piedi da un gruppo di industriali veneti. E' operativa da poco, ma è già finita sulle prime pagine dei giornali. E' successo ad ottobre quando, sul volo Venezia-Roma, si è aperto il portellone e una hostess ha rischiato di finire nel vuoto. L'ha afferrata all'ultimo momento il presidente del Vicenza Calcio, Gianni Sacchetto. Un bel miracolo, si è sfiorata la tragedia. Panico tra i clienti della compagnia? Valanga di prenotazioni disdette? Macché. Per mettere paura ai pionieri veneti ci vuole ben altro. La guardia di Finanza, la tassa sull'Europa: questi sono i pericoli da evitare. Via, via dall'Italia.

Parte tutti i giorni dispari, a mezzogiorno, dall'aeroporto "Valerio Catullo" di Verona, l'aereo del miracolo veneto che se ne va. Destinazione Arad, capoluogo del distretto di Bihor e centro commerciale da 250mila abitanti, schiacciato tra i Carpazi occidentali e il confine ungherese. All'arrivo, sbrigate le pratiche alla dogana, un pullmino della Alpi Eagles accompagna i passeggeri fino a Timisoara o ad Oradea, dove si trovano i maggiori distretti industriali rumeni. Niente donne o quasi, tra i passeggeri dell'aereo. Le hostess spiegano che i viaggiatori sono di due categorie: gli imprenditori - quasi tutti veneti, qualcuno lombardo - che il week end tornano in Italia, e i cacciatori, che fanno il cammino opposto. Questi ultimi, a loro volta, si dividono tra cacciatori di selvaggina e "cacciatori" di donne rumene, pare con una certa prevalenza dei secondi. C'è un'altra categoria, pure numerosa: i tecnici italiani che fanno avanti e indietro per curare le attrezzature italiane delle imprese italiane in Romania.

Gregorio Scolaro, cinquant'anni, viene da Montagnana, in provincia di Padova. E' uno dei tanti passeggeri abituali del volo Verona-Arad:

Sono qui ogni due o tre settimane. Passo in Romania una decina di giorni al mese,

racconta. Lui il viaggio lo fa per lavoro.

Faccio l'imprenditore da 23 anni. Prima ero contadino. Fabbrico ombrelloni da sole, ombrelloni pubblicitari, articoli da giardino ed arredamento. Soprattutto in legno, ma anche in ferro, plastica e tessuto.

Così oggi l'ex contadino fattura 20 miliardi l'anno e dà lavoro a 170 persone nel Veneto. In Romania ha cominciato a lavorare due anni fa, commercializzando i prodotti degli altri. Pochi mesi, quanto basta per guardarsi attorno, fare due conti, e poi via con la produzione in proprio.

Con i miei prodotti ho iniziato un anno fa, non appena ho trovato i primi spazi produttivi. Ad Alba Iulia, al centro della Transilvania, ho creato una ditta con due milioni di dollari di capitale sociale. Si chiama Scolarom. Gli affari? Vanno bene, grazie.

Cosa spinge uno che ha fatto fortuna nel mitico Nord-Est, la zona più europea d'Italia e forse dell'Europa stessa, a venire a dannarsi l'anima in Romania, dove i treni non arrivano e la carta igenica, quella ruvida, è un bene di lusso?

Il discorso è semplice: io esporto quasi tutto il mio prodotto in Europa, comprese Russia ed Ucraina, e i miei clienti comprano in tutto il mondo. Per essere competitivo, devo produrre a basso costo. Qui in Romania il costo della manodopera è quindici-venti volte inferiore a quello italiano, ed anche le materie prime costano molto meno. E poi ho scoperto che questo Paese è anche un mercato in cui vendere, non solo un luogo dove produrre. Vede, le fabbriche rumene non fanno prodotti di buona qualità. Qui hanno un problema: mancano gli imprenditori. Nei Paesi dell'Est ci sono molti operai e molti burocrati. Ma imprenditori, niente. E allora...

E allora tocca a chi ci sa fare.

Sì. Ma prima occorre capire come si lavora qui. E questo non è facile. La cosa importante, per fare affari con queste persone, è curare i rapporti umani.

Ignorati da tutti, anche dalle autorità rumene ("Per loro esistiamo solo per pagare le tasse"), ai pionieri veneti alla conquista dell'Est non resta che la dote più elementare di ogni imprenditore: l'arte di trattare con il prossimo.

Pochi qui hanno le idee chiare su come funziona la faccenda. Molti cercano il partner rumeno, ma questo è l'errore più grosso. Gli italiani sono convinti di pensare ai propri affari, ma anche i rumeni pensano ai propri. Così spesso, appena fatta una società mista, il socio italiano e quello rumeno litigano. E' un errore anche affidare la direzione della fabbrica ai rumeni. La direzione deve essere di tipo occidentale. Io ho trovato rumeni bravi che mi fanno la contabilità, ma non è stato facile. Ecco perché i rapporti umani sono importanti.

Forte di questa filosofia, Gregorio punta tutto sulla sua nuova Patria.

Sto mettendo su una falegnameria. Sto facendo anche un progetto Job, uno di quelli della Comunità europea, con il quale la mia ditta in Italia sta per ottenere un prestito per finanziare il progetto che porto avanti qui in Romania. Ho avuto l'approvazione per costituire una società per azioni con tre miliardi e mezzo di capitale sociale, ed il settanta per cento mi viene finanziato dalla Comunità europea a basso tasso d'interesse.

Da buon contadino, Gregorio ha imparato che non si butta via niente. Neanche l'esperienza. Ed ha capito che per fare consulenza d'impresa non è necessario chiamarsi Arthur Andersen. Soprattutto in Romania.

Ora stiamo sviluppando una nuova attività: compriamo aziende statali e capannoni a basso costo, per poterli rivendere agli altri operatori, fornendo anche assistenza commerciale ed amministrativa. Sa, in questi anni abbiamo acquisito una buona esperienza, e possiamo utilizzarla per gli altri. Magari anche per favorire quell'indotto che serve alla nostra attività. A proposito, se conosce qualcuno interessato....


Just in time



Fa ancora gli scongiuri Luigi Di Rupo.

Sull'Antonov della Banat Air che cadde il 13 dicembre del '95 dovevo esserci anche io. Ma mia figlia mi costrinse ad andare dal dentista, perché era già la terza volta che spostavo l'appuntamento. E' stato un miracolo. Adesso, se l'aereo sul quale devo volare è un Antonov, resto a terra e non parto. Ma ne ho prese di quelle carrette, per andare da Bucarest ad Oradea, prima che ci fosse il volo diretto da Verona. Spesso all'aeroporto di Bucarest ci dicevano che l'aereo non poteva partire, perché ad Oradea c'era nebbia. Tutto falso: la verità? Il pilota era ubriaco. Che roba....

Qui in Romania, Luigi, che viene da San Giovanni Larione, in provincia di Verona, è un veterano.

Ho iniziato cinque anni fa, come tecnico di una ditta italiana di scarpe. Davamo il lavoro in appalto alle aziende statali rumene. Si andava lì con l'articolo in mano, lo si faceva vedere ai rumeni e si stabiliva la fornitura ed il prezzo. Il controllo tecnico lo fornivo io assieme ad un altro italiano, perché volevamo un prodotto qualificato. Poi, sa come vanno queste cose... ho visto che qui si può lavorare bene, fare soldi, e così due anni fa, assieme alla ditta per cui lavoravo e ad altri due soci italiani, abbiamo messo su un'azienda per fabbricare scarpe. Si chiama Ambra.

Come quella di Canale 5?

Proprio così.

Vanno bene gli affari, alla Ambra srl.

Non mi lamento. Facciamo circa tremila paia di scarpe al giorno. Lavoriamo anche per conto di altre due aziende italiane. Il nostro prodotto si vende anche in Germania, Francia, Belgio, Inghilterra... un po' dappertutto.

Un buon successo, a fronte di un investimento minimo: in tutto, i quattro soci della Ambra hanno investito in Romania circa trecento milioni. I macchinari li hanno presi usati dall'Italia.

Sono sempre molto più moderni di quelli rumeni,

assicura Di Rupo.

Guadagnerà pure bene, l'imprenditore italiano ad Oradea, ma non fa una gran bella vita.

Si sgobba, altroché. Gli operai fanno i turni, noi no. Si comincia alle sei del mattino e si chiude alle dieci di sera. Bisogna essere sempre lì, a controllare gli operai rumeni. Se salta la vite di un macchinario, quelli smettono di lavorare e bloccano tutto il processo. Per fortuna mi alterno col mio socio, e faccio la spola tra l'Italia e la Romania. Sì, è dura lontano dalla famiglia. Se potessimo ce ne staremmo in Italia.

Vita dura, vita da pionieri. Viene da chiedergli chi gliela fa fare, visto che l'alternativa sarebbe comunque restare nel mitico Veneto del boom. Dove si lavora bene. O no?

Dalle nostre parti si lavora ancora bene, ma qui siamo più competitivi come prezzi, perché c'è molta mano d'opera. E la mano d'opera in Italia costa troppo. Certo, il lavoratore rumeno produce meno: in Italia, con venti persone si potevano produrre un migliaio di paia al giorno. Qui, con venticinque lavoratori, ne produco ottocento. Ma la differenza di costi rimane. Poi qui non ci sono problemi di sindacalizzazione e di tensioni in fabbrica, anche perché noi privati paghiamo bene, più di quanto facciano le ditte di Stato. La verità è che può permettersi di fabbricare in Italia solo chi fa scarpe di un certo prezzo. Gli altri, se vogliono continuare, sono costretti a scappare.

E Oradea è quasi una scelta obbligata.

E' vicina al confine ungherese, i camion fanno presto ad arrivare alla dogana. In tutto, in questa zona, noi italiani faremo qualcosa come 40mila paia di scarpe al giorno. Anche di più.

Tra dipendenti e terzisti, lavorano per la Ambra circa 350 persone. Con qualche senso di colpa da parte di Di Rupo.

Dispiace davvero dare lavoro in Romania quando si potrebbe farlo in Italia. Ma se i politici non riducono tutto quello che appesantisce la busta paga, i disoccupati non potranno che aumentare. L'azienda per cui lavoravo come tecnico negli anni Settanta produceva circa 18mila paia di scarpe al giorno. Adesso è chiusa. Pensi a quante persone dava da mangiare, e si faccia i conti di quanta ricchezza è andata perduta.

La leggenda vuole che le aziende tedesche non si spostino mai da sole. Dopo poco arrivano anche la Deutsche Bank e i funzionari governativi, che hanno il compito di "spianare la strada" agli industriali. E gli italiani?

Siamo allo sbaraglio. Non abbiamo nessun appoggio dall'Italia. Ogni tanto siamo costretti a chiedere una mano a qualche parlamentare, quando non riusciamo ad ottenere i documenti che ci servono. Per il resto, niente di niente. Ma ormai ci siamo abituati. Anche nei rapporti con le autorità romene siamo lasciati a noi stessi.

Il modo per intendersi, comunque, l'hanno trovato.

Qui le ruote vanno unte. In dogana, ad esempio. Spesso bloccano la spedizione e dicono che c'è un problema. "Quale?Ó, gli si chiede. "ProblemaÓ, rispondono. Così tocca sganciare cento marchi, e non ci si fa in tempo a girare che il camion è già uscito. Stesso discorso per la Finanza. Qui non è come in Italia: da gennaio ad oggi l'avremo avuta cinque o sei volte. Ogni volta ricominciano i controlli dall'inizio. E ogni volta occorre trovare il modo per metterci d'accordo.

Come molte aziende italiane, l'Ambra ha importato in Romania l'uso massiccio di terzisti, caratteristica vincente dell'impresa veneta.

Tutte le materie prime arrivano dall'Italia. Il resto lo facciamo in Romania. Della tagliatura ce ne occupiamo direttamente, perché se la diamo da fare ai rumeni provano sempre a rubarci qualcosa. Ma subito dopo subappaltiamo il lavoro a giunterie rumene, alla quali spesso abbiamo dato noi stessi in prestito le macchine da cucire. Ci riportano il prodotto cucito ed orlato. Quello che rimane del lavoro, fino al prodotto finito, lo facciamo noi in fabbrica. Solo le tomaie più difficili, una piccola quantità, le mandiamo a lavorare in Italia.

E l'etichetta Made in Romania?

Niente, nessuna etichetta sulle nostre scarpe. Al limite, quando possiamo, scriviamo Made in Italy sulle suole.

Parola d'ordine: produzione rapida e flessibile. La scarpa impiega solo dieci giorni per essere lavorata ed immessa sul mercato.

Ho scaricato materiale per duemila paia di scarpe venerdì scorso, sette giorni fa, ed oggi ho rispedito il prodotto finito in Italia. Lunedì il carico è a Verona, pronto per andare nei negozi.

Avessero mezzi di trasporto più veloci, Di Rupo e gli altri se la sbrigherebbero in meno di una settimana. La filosofia del just in time, inventata dagli americani, ha raggiunto la sua apoteosi lungo la nuova frontiera dell'Est Europa. Fino a quando?

Per altri cinque anni, forse dieci, ci si potrà stare, poi anche qui sarà finita, e dovremo trovare mercati che ci daranno la possibilità di lavorare a basso costo da qualche altra parte. Il mercato russo è buono, anche come sbocco per le merci. Lì si vendono bene gli stivali. Ma sono in pochi quelli che si fidano, a causa dell'instabilità politica. Giusto chi ha canali molto buoni si avventura fin laggiù. Qualcuno sta già guardando alla Bosnia, ma chi ha il coraggio? Io no, almeno per ora. Tra qualche tempo, chissà.


Non è richiesta alcuna esperienza particolare e non devi avere un'età stabilita. Ma se hai voglia di lavorare e di diventare qualcuno nella tua professione, noi possiamo aiutarti.

Annunci del genere, sui giornali italiani, ormai riguardano solo i venditori di enciclopedie porta a porta. Ma nella Romania che si converte al libero mercato, niente di strano se l'offerta è seria e prevede uno stipendio fisso. Specie se a farla apparire su Crisana, cotidian independent del 19 novembre 1996, è la Corneliani, azienda italiana d'abbigliamento maschile d'alta qualità.


AAA lavoratori cercansi



La lista delle imprese italiane sbarcate in Romania non comprende infatti solo illustri miliardari sconosciuti, ma anche alcuni tra i più bei nomi dell'imprenditoria italiana. Sono fatte in Romania le scarpe Lumberjack, quelle della Lotto e della Diadora, che appaltano parte della lavorazione a terzisti rumeni. Alla Corneliani, invece, hanno scelto un'altra strada. Creata nel 1930 da Alfredo Corneliani, oggi l'azienda esporta fuori dall'Italia oltre il 30% della propria produzione. Nei suoi due stabilimenti di Mantova e Verona trovano lavoro più di 1400 persone. Ma per il futuro, Claudio, Carlalberto e Corrado Corneliani, gli eredi del fondatore, hanno deciso di puntare sulla Romania. Così, nel settembre del '95, alla periferia di Oradea è nato un moderno capannone industriale.

Mi raccomando, non faccia confusione con gli altri imprenditori italiani che sono venuti qui in Romania. Corneliani è un'altra cosa,

dice preoccupata per l'immagine della casa madre la signora Luminita Paval, che pensa alla direzione dello stabilimento quando non ci sono i proprietari italiani. E snocciola una dietro l'altra tutte le differenze tra Corneliani e "gli altri".

Innanzitutto - spiega in un ottimo italiano - tutto quello che vede in questo stabilimento, dagli impianti di sicurezza ai vetri ai condizionatori d'aria, viene dall'Italia, così come sono italiani gli standard di sicurezza. E poi che i Corneliani facciano sul serio si vede dal fatto che non hanno creato una srl come gli altri, ma una società per azioni con un capitale sociale di oltre un milione e mezzo di dollari. Hanno investito anche in formazione: pensi che i primi venti dipendenti rumeni assunti hanno seguito un corso di sei settimane nelle sede Corneliani in Italia.


La joint-venture che gestisce l'impianto si chiama Sogema, e vede tra i suoi azionisti, accanto ai Corneliani, anche un socio rumeno, la Ily Company di Bucarest.

Ma quello lì non conta niente, ha lo 0,01%

ridacchia Luminita, quasi a volersi sbarazzare di una presenza ingombrante. Per ora lo stabilimento, che produce solo per F.lli Corneliani, conta 110 dipendenti. Pochi, ma destinati ad aumentare.

In un'intervista apparsa su un altro quotidiano locale, Corrado Corneliani, amministratore dello stabilimento di Oradea, ha detto che l'investimento in Romania è strategico, e che l'idea base dell'iniziativa è

ottenere un risultato che premi la nostra società e, al tempo stesso, sia di utile esempio per le nostre maestranze e per l'imprenditoria estera e locale seriamente intenzionata ad investire nel nostro Paese.

Anche in Romania la buona pubblicità inizia dai rapporti con la stampa.


Cacao made in Romania



Uno pensa alla mondializzazione dei mercati e le immagini che gli vengono in mente sono le fabbriche di Singapore, gli schermi dei computer su cui vengono siglate trattative internazionali via Internet, le Borse di Tokio e New York... Insomma, è difficile accostare la globalizzazione dei mercati alla periferia di Oradea, cittadina rumena da 250mila abitanti. Invece è proprio qui, da un fatiscente stabilimento industriale firmato Ceausescu, che Gianni Bellè dà ogni giorno il suo piccolo contributo alla globalizzazione.

Sono arrivato in Oradea nel novembre del '92. Siamo stati tra i primi. Dopo di noi, c'è stata la processione.

Racconta che la prima volta che con suo figlio ha messo piede in Romania ci è rimasto quattro mesi, che gli sono serviti per farsi esperienza.

Tornati in Italia, ci siamo messi d'accordo con la Cacao, una della principali società italiane di abbigliamento per bambini, della quale eravamo terzisti quando lavoravamo in Veneto. Così, dopo poco, eravamo di nuovo in Oradea, dove abbiamo dato vita alla Belconf, società a responsabilità limitata. Piero Comunello, proprietario della Cacao, ha messo i capitali, noi la nostra esperienza. Abbiamo preso in affitto un capannone, poi un altro, ed abbiamo iniziato a fare conto lavorazione per alcune aziende italiane. Solo dopo una stagione abbiamo iniziato con il prodotto Cacao. Il rodaggio è stato necessario perché quello Cacao è un buon prodotto, bene inserito nella fascia medio-alta. Adesso lavoriamo anche per un altro grande gruppo italiano di abbigliamento femminile.

Del resto alla Cacao, azienda che oggi fattura circa 40 miliardi, la delocalizzazione produttiva è una vecchia abitudine. I Comunello è da molto che girano per il mondo alla ricerca di mercati più convenienti dove produrre. Sono stati tra i primi a sbarcare a Taiwan, in Portogallo, in India ed in Thailandia. Proprio in questi mesi, racconta Bellè, i suoi soci stanno valutando un'offerta arrivata dalla Cina.

Proposte simili ne sono giunte da molti Paesi, e continuano ad arrivare,

assicura.

Quello che fanno qui alla Belconf, in linguaggio tecnico si chiama Tpp, traffico di perfezionamento passivo. In soldoni, spiega Bellè, vuol dire che

importiamo in Romania le materie prime dall'Italia, facciamo il semilavorato e lo reimportiamo in Italia.

Non sono i soli. Il Tpp è la forma di collaborazione più diffusa tra le aziende italiane e quelle con sede in Romania. Difficile avere una stima dell'entità del fenomeno. Ci ha provato Alessandro Crescini, studente di Scienze politiche ed allievo del professor Maurizio Mistri all'Università di Padova. Secondo i suoi dati, nell'80% dei casi questa forma di subappalto su scala internazionale riguarda il settore tessile-abbigliamento, seguito dal calzaturiero con il 15%. Il Veneto è la regione che più ricorre al Tpp, con una quota sul totale pari al 38,07% nel primo semestre del '96. Seguono Lombardia ed Emilia Romagna con percentuali, rispettivamente, del 24,75 e del 10,56%. Quanto ai Paesi che ospitano la lavorazione, Crescini mette al primo posto proprio la Romania, che nel 1995 ha ottenuto il 38,5% delle lavorazioni per il tessile e l'abbigliamento subappaltate all'estero dalle aziende italiane.

Bellè è convinto che una scelta simile sia obbligata.

Produrre qui vuol dire avere costi ben diversi da quelli italiani. Se il prodotto fatto in Italia ci costa 100, qui spendiamo 30 o 40. E adesso i costi sono in rialzo, perché qui in Oradea siamo troppo vicini all'Ungheria, che è una realtà già più avanzata. Per risparmiare ulteriormente, dovremmo andare più all'interno.

Anche qui fisco e previdenza sociale fanno la loro parte.

Per avere in mano 400mila lei (la moneta rumena), circa 170mila lire, i lavoratori rumeni devono ricevere uno stipendio lordo di 700mila lei, dato che sulla loro busta paga grava un 40% di imposte che lo Stato preleva alla fonte. A sua volta il datore deve sborsarne più di un milione, visto che il 40% di questa cifra è destinata ai contributi per la pensione e ad altri oneri sociali.

A conti fatti, però, conviene sempre. Il neo è uno solo: la qualità della manodopera.

Questo è l'unico, grande problema che abbiamo incontrato in Romania. Vede, qui si produce a buon prezzo, ma con scarsi risultati qualitativi. Occorre sudare per ottenere la qualità necessaria ad un prodotto destinato al mercato italiano.

Un altro problema, per la verità, ci sarebbe: la burocrazia rumena. Che, quanto a ottusità, se la gioca alla pari con quella italiana. Ma la soluzione è a portata di mano.

Le faccio un esempio. Gli stabili in cui lavoriamo sono del gruppo industriale Premagro. Se servono dei lavori di ristrutturazione, è alla Premagro che mi devo rivolgere. La prima risposta che mi viene data è sempre un "noÓ. Se invece allungo qualcosa, tutto si risolve. Questa è la prassi.


Anche la Belconf fa un uso intensivo dei terzisti.

Abbiamo 250 persone all'interno della fabbrica, e diamo lavoro ad altrettante nell'indotto. Ci sono laboratori e ditte rumene che lavorano solamente per noi. Offriamo lavoro continuativo e forniamo l'assistenza dei tecnici italiani. Chi lavora per noi, cresce ed impara a fare un buon prodotto.

Così, mentre il mercato italiano si restringe, la Belconf aumenta la produzione ad un ritmo taiwanese.

Abbiamo iniziato con diecimila capi l'anno, poi siamo passati a 60mila, a 120mila... Adesso siamo sugli 800mila capi, e la prossima stagione ne produrremo un milione e 200mila.


Niente ipocrisie: Bellè sa benissimo che a questo crescendo corrisponde un taglio della produzione in Italia. E quindi dei posti di lavoro.

La cruda verità è che il lavoro che facciamo qui prima era fatto in Veneto. Quindi, alla fine, in Italia ci sono posti di lavoro in meno. Ma questo accade prima di tutto perché non è stata fatta alcuna politica di creazione dell'occupazione, soprattutto per le aziende artigiane. Queste le hanno fatte morire i governi con le tasse, ma hanno contribuito anche i sindacati, sia quelli dei lavoratori che i nostri sindacati di categoria, che ci dovevano garantire e che invece non hanno fatto la loro parte.

Alternative, insomma, Bellè giura che non ne aveva.

Abbiamo dovuto chiudere, siamo stati costretti a scappare dall'Italia. Chi è riuscito a farlo rimanendo in piedi, come noi, è stato fortunato. Ma molti hanno perso tutto, anche quello che si erano costruiti venti anni prima.


Niente di strano, quindi, se oggi tutti i progetti di Bellè sono ambientati in Romania. E se tiene più a Costantinescu che non a Prodi e Berlusconi.

Cercheremo di espandere la nostra produzione in Oradea. Abbiamo in programma la creazione di uno stabilimento tutto nostro. Certo, molto dipende da come cambierà questo Paese. Dalle ultime elezioni, la Romania ha un nuovo governo. Iliescu era da tutti i punti di vista l'erede di Ceausescu. Costantinescu ha promesso agevolazioni per gli imprenditori. A me sembra una brava persona. Vedremo cosa riuscirà a fare. Ecco, questo è il grosso punto interrogativo sul futuro della Romania. E sul futuro di chi, come noi, lavora e produce qui.


Post scriptum: dieci anni fa, nello stesso stabilimento che ospita la Cacao, l'industria di Stato Premagro fabbricava armi per il regime di Bucarest. Oggi dai capannoni escono tutine e maglioncini colorati per bambini, e gli stipendi dei lavoratori rumeni sono migliorati. Chi ha detto che il mercato è senza cuore?

Fausto Carioti


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1997