Da Nuova Delhi la strada per il nuovo multipolarismo
di Andrea Gilli* e Francesco Giumelli**
[01 mar 06]

Le relazioni internazionali non spiegano tutti i rapporti fra gli Stati e tanto meno sono in grado di prevedere quello che accadrà in futuro: in pochi avevano infatti previsto lo scoppio della prima guerra mondiale e praticamente nessuno avrebbe mai pensato che la guerra fredda si sarebbe chiusa “senza colpo ferire”. Tuttavia, le teorie ci possono aiutare a comprendere meglio la struttura dell’ordine internazionale alla luce degli eventi contemporanei. La teoria ci dice innanzitutto che le alleanze tra due (o più) paesi servono per contrastare l’ascesa di un terzo incomodo. L’accordo di cooperazione in materia nucleare fra Stati Uniti e India sembra avere proprio questo significato, e il terzo incomodo, in questo caso, sarebbe rappresentato dalla Cina. Il rafforzamento dell’alleanza tra Washington e Nuova Delhi segna, infatti, l’apertura di una nuova stagione di ristrutturazione dell’ordine mondiale che dall’attuale configurazione unipolare sembra andare verso un ordine multipolare: riconfigurazione a cui gli Stati Uniti stanno semplicemente reagendo.

Il potere lo usa solo chi ce l’ha e, di solito, chi ce l’ha non esita ad usarlo. In questa frase si può riassumere la visione realista delle relazioni internazionali. Gli ateniesi non esitarono a ricordarlo ai meli quattro secoli prima di Cristo, Napoleone seguì questo principio a cavallo fra XVIII e XIX secolo, la Gran Bretagna fece altrettanto nel periodo della Pax britannica, e gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica imposero la loro legge nelle rispettive aree di influenza. Così anche oggi le relazioni internazionali fanno i conti con la forza e la capacità degli Stati di metterla in pratica. Gli Stati Uniti sono attualmente lo Stato leader dell’ordine internazionale, in altre parole sono l’unico Stato in grado di proiettare potere politico, economico e militare su tutto il pianeta. Nessuno è in grado di sfidarli, ma ci sono alcuni attori che intendono giocare tale ruolo in futuro.

La Cina è sicuramente uno dei paesi candidati a contrastare il potere americano nei prossimi anni. L’apertura al mercato avvenuta fine degli anni Settanta ha provocato una sostenuta crescita economica che ha trasformato radicalmente il paese. Alcune stime di crescita economica indicano che essa tornerà ad essere la più grande economia del mondo nel 2020. Tuttavia, la Cina non ha solo le potenzialità economiche, ma ha anche dato prova di voler utilizzare il proprio arsenale militare per perseguire i propri obiettivi di politica estera. E’ successo quando, nel 1995, venne esplicitamente minacciata la distruzione di Los Angeles nel caso in cui gli Stati Uniti fossero intervenuti su Taiwan; è successo la scorsa estate quando la Cina ha organizzato un’enorme esercitazione militare con la Russia; sta succedendo oggi con la ristrutturazione dell’esercito cinese (si veda per esempio Roger Cliff, Modernizing China’s Military: Opportunities and Constraints, Rand, 2005). Ricapitolando, la teoria dice che uno Stato in grado di usare la forza lo farà quando lo riterrà necessario. I fatti mostrano che la Cina sta concentrando potere economico e militare in grado di bilanciare la potenza egemonica, alias gli Stati Uniti.

“Siamo in un mondo unipolare.” Con queste parole Charles Krauthammer nel 1990 aveva descritto il mondo post-guerra fredda. Fino al 1989 il mondo era stato bipolare. Improvvisamente uno dei due poli, l’Unione Sovietica, era crollato e gli Stati Uniti si erano trovati in una posizione di dominio globale incontrastato. Nessuno era in grado di sfidarli ed in pochi si sono chiesti chi avrebbe potuto essere il primo sfidante della potenza egemone. Tuttavia, il trend crescente della Cina e la sua volontà politica di perseguire una politica di potenza hanno convinto molti che bisognava guardare a Pechino per comprendere la composizione dello scacchiere internazionale. Washington aveva due strade: quella dell’integrazione o quella del contenimento. I liberali sostenevano la prima posizione. I realisti la seconda. (si veda Andrea e Mauro Gilli, Il nuovo pericolo giallo).

Con il recente accordo tra India e Stati Uniti sembra che Washington abbia compiuto una svolta importante verso la Realpolitik. Il realismo suggerisce, infatti, due strade da percorrere parallelamente per confrontarsi con la Cina (o con qualunque sfidante che miri alla destabilizzazione dell’egemonia americana): da una parte, perseguire l’obiettivo del rallentamento economico dell’ex-Impero celeste; dall’altra, cercare di stringere una serie di alleanze regionali per operare un contenimento della nuova potenza emergente, le cosiddette counter-balancing alliances. Per quanto riguarda il primo obiettivo, gli USA non hanno ancora preso una posizione chiara: se nell’ottobre del 2004 un’azienda cinese poteva comprarsi senza problemi la Ibm, nell’estate del 2005 la tentata acquisizione dell’americana Unocal, sempre da parte di un’azienda cinese, ha suscitato reazioni tali da compromettere l’accordo. Probabilmente, in questo campo, gli Stati Uniti stanno ancora applicando una strategia di wait and see, ovvero Washington sta evitando il confronto diretto con Pechino fino a che le vere intenzioni cinesi non verranno a galla. Gli USA non vogliono rompere con la Cina, ma neppure vogliono alimentare il loro (possibile) nemico fino a quando questo non si rivolterà contro di loro.

Per quanto riguarda la seconda strada, invece, non sembra che gli USA abbiano più dubbi: la crescita della potenza cinese impone di stringere delle alleanze utili, in futuro, a contrastarla. Washington gode già di alcune solidissime alleanze nell’area come quelle con Australia e Giappone, altre solide ma che rischiano di indebolirsi in futuro, come quelle con il Pakistan e con la Corea del Sud e altre nascenti, come con il Vietnam e appunto con l’India, con la quale gli Stati Uniti hanno siglato la scorsa settimana un accordo di cooperazione nucleare in campo civile. (si veda Stephen J. Blank, Natural Allies? Regional Security in Asia and Prospects for Indo-American Strategic Cooperation, SSI, 2005). A questo punto è necessario cercare di capire perché gli Stati Uniti hanno scelto un’alleanza strategica con l’India. Si possono rintracciare sostanzialmente quattro motivi. In primo luogo, come la Francia e l’Inghilterra, per semplici ragioni geografiche, furono avversarie della Germania, così l’India si trova ad essere naturalmente opposta alla potenza cinese. Inoltre, i trend economici e demografici suggeriscono che Nuova Delhi sarà presto una diretta concorrente di Pechino, e quindi gli interessi di questi due paesi saranno verosimilmente costretti a collidere.

In secondo luogo, l’India è destinata, nei decenni a venire, a giocare un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale: la sua economia cresce a tassi di poco inferiori a quelli cinesi, la sua popolazione è destinata a superare addirittura quella cinese nel giro di qualche decennio e la sua posizione geografica le permette di guardare (dominare?) sia all’Asia centrale, che al Medio Oriente, che al Sud Pacifico. In terzo luogo l’India ha un’economia che si espande velocemente e proprio come quella cinese è alla forsennata ricerca di materie prime, tra le quali spicca il petrolio. L’India ha bisogno di benzina e gasolio per poter far muovere le sue industrie e quindi produrre e vendere beni, condizione irrinunciabile per combattere la povertà nel paese. Questa dipendenza energetica può, però, rappresentare un ostacolo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni con Washington: Nuova Delhi, per esempio, negli ultimi anni ha stretto i rapporti con l’Iran proprio per le forniture energetiche. E’ ovvio che a Tehran i movimenti di Washington non sono particolarmente apprezzati, quindi una forte dipendenza indiana dal petrolio iraniano potrebbe essere sfruttata dallo stesso Iran per boicottare in futuro proprio l’alleanza tra Stati Uniti e India.

Promuovendo la cooperazione nel campo nucleare non c’è da dubitare che gli USA vogliano anche rafforzare l’indipendenza energetica di Nuova Delhi, e quindi renderla più libera politicamente. Dove per “libera” si intende fortemente alleata di Washington. Il quarto motivo riguarda il ruolo che l’economia indiana potrebbe giocare alla luce degli interessi economici statunitensi. Tutti sanno quanto oggi la Cina sia importante per l’economia americana: attraverso l’outsourcing, gli Stati Uniti trasportano in Cina le produzioni obsolete così da disinflazionare la loro economia e poter quindi investire maggiormente in produzioni ad alto valore aggiunto. Se in futuro ci sarà uno scontro con la Cina, è improbabile che Pechino continui a svolgere questo ruolo: gli Stati Uniti avranno quindi bisogno di trovare qualcuno che assolva l’attuale ruolo di Pechino, e l’India sembra essere un ottimo candidato visti i suoi bassi costi di produzione e l’elevata specializzazione della sua forza lavoro.

Il differenziale di potenza fra gli Stati Uniti e le altre potenze sul quale si è basato il mondo unipolare si sta erodendo. La struttura dell’ordine internazionale vede la crescita di altri Stati quali, ad esempio, la Cina, l’India, il Brasile, l’Iran e, forse, anche l’Unione Europea. Tra tutti, la Cina è l’unica che ha dimostrato di avere le possibilità economiche e la volontà politica per contendere agli Stati Uniti il ruolo di potenza egemone del sistema internazionale. Siglando l’accordo con l’India, Washington ha dato prova di aver compreso le intenzioni cinesi e di prepararsi a questa sfida Gli Stati Uniti avevano bisogno di un solido alleato: lo hanno trovato e l’importanza di quest’alleanza è data dal costo politico dell’accordo. Esso, infatti, mina fortemente il trattato di non-proliferazione. Germania, Giappone e Brasile potrebbero quindi risentirsi dei privilegi accordati all’India. Mentre Iran e Corea del Nord potrebbero non ritenere più accettabili i vincoli che si sta cercando di mettere ai loro rispettivi programmi atomici. La Casa Bianca ha di fatto indebolito la legittimità del controllo sulla proliferazione nucleare: evidentemente, però, in quel di Washington ritengono che un’alleanza strategica con Nuova Delhi sia molto più importante dell’Npt. Sintomo quindi che la Cina fa molta più paura dell’Iran, della Corea del Nord, di al-Qaeda e di qualunque “asse del male”. Sembra dunque che Mearsheamer avesse proprio ragione nel suo profetico The Tragedy of Great Power Politics. Ci avviamo verso un nuovo multipolarismo, history is on the move, again.

01 marzo 2006

* Andrea Gilli è uno dei titolari del blog 2twins
** Francesco Giumelli è il titolare del blog Tucidide

 


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