Il nuovo pericolo giallo?
di Andrea Gilli e Mauro Gilli*
[25
ott 05]
Esattamente un
secolo fa, con il trattato di Portsmouth del 29 agosto 1905, l’impero
zarista ammetteva la sconfitta subita per mano del Giappone, che così
entrava a pieno titolo sul palcoscenico internazionale. Per l’Europa –
che allora vantava un dominio incontrastato su quasi tutta l’Africa e su
buona parte dell’Asia – la sconfitta della Russia fu una tragedia: la
superiorità dell’uomo bianco venne per la prima volta messa in
discussione. Dall’estremo oriente sorgeva per la prima volta un’ombra
sul mondo: il “pericolo giallo”.
Oggi quel pericolo giallo sembra essere tornato. Questa volta però non è
più rappresentato dal Giappone ma da un nuova potenza regionale: la
Cina. Se mai servisse una conferma, basta ricordare come è stato
“festeggiato” il centesimo anniversario del trattato di Portsmouth: con
un’esercitazione militare congiunta tra l’esercito cinese e quello
russo. Dopo che il mondo si è “distratto” sul terrorismo, il dossier
cinese sembra nuovamente tornato alla ribalta. Se è infatti vero che il
terrorismo rappresenta una grave minaccia alla nostra sicurezza, è
altresì vero che l’unica possibile minaccia al potere americano viene
dalla Cina.
Non è un caso che
proprio mentre si assisteva all’esercitazione congiunta sino-russa, sia
il prestigioso bimensile Foreign Affairs che il National Interest
abbiamo pubblicato un’intera sezione dedicata alla questione cinese. A
contribuire al dibattito interveniva negli stessi giorni anche Coling S.
Gray – uno dei più importanti strateghi militari al mondo – che mandava
alle stampe un libro dal titolo più che eloquente: Another Bloody
Century. Ma Colin Gray contestava soprattutto l’ottimismo “utopista” di
un futuro pacifico ed indicava proprio nella Cina il più probabile
avversario degli Stati Uniti negli anni a venire. La tesi del pericolo
cinese non è però condivisa da tutto l’establishment americano. Molti
sostengono infatti che una Cina ricca dovrà per forza di cose
democratizzarsi e diventare più pacifica. Le due posizioni qui espresse
(quella della Cina-opportunità e quella della Cina-minaccia)
ripercorrono fondamentalmente due importanti teorie delle relazioni
internazionali: la teoria liberale e quella realista.
Una Cina ricca sarà democratica, libera e pacifica
(?)
La crescita economica della Cina è certamente una grande opportunità,
soprattutto per i paesi occidentali che si possono così avvantaggiare,
da una parte, dei suoi prodotti a basso costo, e dall’altra di un
mercato in rapida espansione, senza che ciò oltretutto debba comportare
una diminuzione del loro benessere.
Ma i benefici di una Cina integrata nell’economia mondiale non si
fermano qui: riprendendo le parole del liberale inglese Richard Cobden,
i liberi commerci sarebbero infatti “una panacea per le tensioni
internazionali”. Questa visione dei commerci pacificatori, già sostenuta
da Immanuel Kant e da John Stuart Mill, è generalmente riassunta sotto
il nome di “teoria di Doyle”, dal nome dello studioso americano che
negli anni ’80 sottolineò la “minore propensione dei paesi ad economia
libera a farsi la guerra”.
Questa tesi è
stata sostenuta recentemente da un brillante analista americano, il
professore Thomas Barnett, che nel suo The Pentagon’s New Map ha infatti
sottolineato come una Cina “integrata” nell’economia mondiale non
avrebbe alcun incentivo a tentare di acquistare con la forza ciò che non
può acquistare con la moneta. A questa argomentazione si aggiunge un
ulteriore elemento: la crescita e l’integrazione economica favoriscono
lo sviluppo della democrazia, e come insegna la teoria della pace
democratica, le democrazie non si fanno la guerra. Dunque, una Cina
ricca sarebbe nel nostro interesse non solo per i vantaggi economici che
ciò comportebbe ma anche per quelli strategici.
Una Cina ricca sarà la più grande minaccia
alla stabilità del mondo (?)
Gli assunti appena descritti sono stati sempre criticati duramente dal
realismo politico. Secondo la più vecchia dottrina delle relazioni
internazionali (di cui Tucidide ne è il primo alfiere), gli Stati
tendono a farsi la guerra perché mirano ad espandere il loro potere.
Secondo questa visione, il fatto che un paese sia democratico non
rappresenta un’assicurazione contro una deriva bellicista (come ha
dimostrato qualche anno fa Joanne Gowa nel suo Ballots and Bullets: The
Elusive Democratic Peace). E analogamente, il commercio globale – come
la Prima Guerra Mondiale ci ricorda – non è una garanzia della
preservazione della pace.
Piuttosto un paese
in rapida crescita economica potrebbe usare la sua maggiore forza per
espandere il suo potere. Come ammonisce il realismo, gli Stati devono
operare in modo da evitare che si possano ergere delle minacce al suo
stesso potere. Secondo i maggiori esponenti del realismo – tra cui John
J. Mearshimer e il già citato Colin S. Gray – la principale minaccia per
i Paesi occidentali è rappresentata proprio dalla rapida crescita
economica della Cina. Il fatto che negli ultimi anni l’ex-impero celeste
sia diventato un partner privilegiato di numerose dittature, indebolendo
così l’efficacia delle minacce di ritorsioni commerciali da parte degli
Stati Uniti non rappresenterebbe altro che una prova provata. Dunque,
l’interesse nazionale degli Stati Uniti consisterebbe nel limitare la
crescita economica della Cina, per evitare che il pericolo giallo di
oggi, si trasformi in una nuova minaccia tra qualche anno.
Realismo o liberalismo?
Il sentiero Cinese sembra ripercorrere quello Giapponese: entrambi i
paesi hanno dovuto compiere una svolta drammatica con il passato (la
Restaurazione Meji in Giappone nel 1868 e le riforme economiche in Cina
nel 1978), ed entrambi i paesi sono entrati con prepotenza sulla scena
internazionale all’inizio di un nuovo secolo. Inoltre la Cina come il
Giappone 25 anni fa rappresenta anche un concorrente sul piano
economico. Ma come ha scritto Paul Krugman “la sfida cinese sembra molto
più seria di quella rappresentata [negli anni ‘80] dalla sfida
giapponese”.
Tutte e due le
soluzioni appena descritte per fronteggiare questa sfida presentano
grandi rischi: da una parte, una Cina più ricca, governata da una
nomenklatura di cui non si conoscono le strategie né le intenzioni (la
teoria politica ci insegna che di una democrazia, per lo meno, è
possibile prevedere con maggiore facilità le scelte future) potrebbe un
giorno rivoltarsi contro il sistema internazionale ed imporre – almeno
in Asia, e poi addirittura sul resto del pianeta – la sua egemonia. In
quest’ottica, il fatto che numerose aziende Cinesi stiano acquistando
aziende statunitensi (IBM) o abbiano cercato di comprarne altre (Unocal)
rappresenterebbe un grave attacco alla sicurezza nazionale ed
internazionale. Una minaccia è d’altronde tale solo quando può essere
messa in pratica, e solo una Cina ricca potrebbe dotarsi delle armi
necessarie a sfidare gli Stati Uniti.
Dall’altro canto,
un Cina ostracizzata, esclusa – o penalizzata – dal sistema degli scambi
internazionali potrebbe lasciarsi andare ad una deriva bellicista,
trovando nell’uso della forza il modo migliore (se non l’unico) per
ottenere ciò che le viene impedito da una strategia americana realista.
Bisogna quindi capire se con quella mastodontica operazione militare di
inizio agosto, la Cina abbia semplicemente voluto reclamare maggiore
libertà ed integrazione economica (e paventare quanto potrebbe accadere
se ciò non avvenisse) o se invece abbia voluto lanciare un chiaro
avvertimento agli Stati Uniti.
Intanto
nell’estate, mentre l’esercito cinese e quello russo attiravano gli
occhi degli osservatori, Washington iniziava un riposizionamento delle
sue forze navali nel Pacifico, per “reagire alla forza diplomatica,
economica e militare in [rapida] espansione della Cina” – come ha detto
un generale della marina americana al Wall Street Journal. E’ difficile
dire se assisteremo ad un ritorno alla politica di potenza. E’ certo
però che gli Stati Uniti si trovano di fronte a due soluzioni opposte, e
il vero rischio è che possano scegliere quella sbagliata.
25 ottobre 2005
* Andrea e Mauro Gilli sono i titolari del blog
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