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Livio Tamagno, il pioniere della delocalizzazione
intervista di Elisa Borghi
[26 lug 07]


Livio Tamagno è un simpatico milionario torinese di 62 anni che ama trascorrere l'inverno a Montecarlo - dove risiede - e le altre stagioni dell'anno in giro per il mondo. Ma quello che più interessa è che prima di ritirarsi a vita privata, il signor Tamagno è stato uno degli imprenditori più famosi, e di successo, d'Europa. Scarpaio, di estrazione pantofolaio - “mio padre ha sempre fatto questo lavoro”, dice - per anni è stato il titolare della Defonseca, nota azienda di babbucce che partendo da Torino ha conquistato il mercato della ciabatta del Vecchio Continente. E non solo. Livio Tamagno è stato anche un pioniere. Negli anni Settanta fu uno dei primissimi italiani a recarsi in Cina per delocalizzare la produzione. “Era il 1974 - racconta - e io avevo vari negozi di calzature, tra cui uno che era il più grande d'Italia, così ho pensato di richiedere alla corporazione di Arts and Crafts di Shanghai il permesso di andare a vedere come lavoravano e cosa facevano laggiù. Ho atteso sei mesi per avere il via libera, poi sono partito”. Così, dopo avere ottenuto il visto numero 3 dall'ambasciata della Repubblica Popolare, che proprio nel '74 aveva aperto la sua unica sede italiana in via di Bruxelles a Roma, dove si trova tuttora, Tamagno è partito con la moglie alla volta dell'Impero di Mezzo. E laggiù ha trovato la sua America. Che descrive ancora oggi con grande piacere e un po' di nostalgia.

Presidente Tamagno, in Cina negli anni Settanta ha trovato quello che cercava?
Non solo, sono rimasto colpito. In Cina facevano delle pantofole meravigliose, a Shanghai abbiamo firmato un contratto in esclusiva inizialmente per comprare il prodotto finito, poi, con il passare del tempo, abbiamo convinto i cinesi, che avevano mille remore, a portarci dentro le fabbriche. Lì abbiamo inserito i nostri tecnici modellisti per disegnare calzature che avessero uno stile più occidentale. E abbiamo reso operativa una rete di controllori della qualità. Ogni mese un tecnico partiva dall'Italia e andava in Cina ad esaminare tutta la produzione.

Come siete stati accolti?
Allora come oggi i cinesi erano molto aperti e ospitali. Purtroppo il paese era misero, non avevano granché da offrire. Le infrastrutture ad esempio erano scarse, poche le strade. Tutto veniva spostato via mare e fiume, all'interno i treni erano solo a vapore e spesso facevamo 36 ore di viaggio per spostarci da una città all'altra. Ovviamente in inverno non c'era riscaldamento ma non abbiamo mai patito la fame. La Cina negli anni Settanta non era come l'Unione Sovietica dove mancava tutto.

Le difficoltà più grandi?
Le abbiamo trovate in Italia, con le dogane, che cambiavano continuamente regolamento, per cui non si sapeva mai se la merce potesse essere sdoganata o meno. Non si capiva se si doveva andare a Milano, a Torino, a Rotterdam o in Francia. La nostra odissea erano le dogane europee perché ogni piazza interpretava il casellario a modo suo. Gli olandesi in modo molto liberale, i francesi e gli italiani in modo più restrittivo.

Dopo quanto tempo gli imprenditori italiani hanno seguito il suo esempio?
Subito dopo di me sono andati in Cina i produttori di biancheria intima. Mentre invece, quando sono arrivato ho trovato soprattutto gli inglesi, che compravano cachemire, pellicce e seta.

Com'erano le condizioni di lavoro?
Erano quelle di un paese povero ma mai aberranti come quelle che ho trovato, ad esempio, in Vietnam. Nel Vietnam dei comunisti le fabbriche erano inferni, sporchissime, ci lavoravano anche i bambini senza maschere né ventilazione. In Cina le condizioni di lavoro non erano grandemente dissimili dalle nostre sebbene la pulizia mancasse totalmente. Io volevo migliorare le cose e dicevo sempre ai cinesi che la fabbrica doveva essere pulita come un ospedale. Loro si meravigliavano. Un giorno sono entrato in un ospedale e ho capito il loro stupore: l'ospedale era molto più sudicio della fabbrica!

Avete subito i contraccolpi della politica, dei grandi cambiamenti degli anni Settanta e Ottanta?
No. Io sono stato in Cina almeno settanta volte ma non ho subito nessuna conseguenza di quei grandi cambiamenti. Vedevo tutto da fuori, i miei amici cinesi mi raccontavano quello che succedeva in modo molto pacato. Ma il business è business e tutto continuava regolarmente.

Quante persone lavoravano per lei?
Fino a dodicimila persone. Tra gli anni Ottanta e Novanta abbiamo battuto il record di quantità, importavamo trenta milioni di pantofole all'anno. Poi mi sono accorto che erano troppe, che non valeva la pena produrre tanto perché avevamo inflazionato il mercato. Penso che la Defonseca di oggi produca in Cina 16 milioni di pezzi.

Oltre al basso costo della manodopera, quali vantaggi si hanno a produrre in Cina?
L'operosità dei cinesi, la loro precisione. Le donne cinesi lavorano con una attenzione e una continuità a noi sconosciuta. Sono capaci di fare lo stesso pezzo per sette anni per 14 ore al giorno con grandissima cura. Una caratteristica dovuta al loro tipo di scrittura, se aggiungi anche un piccolo segno a un ideogramma quello cambia completamente significato, quindi devi sviluppare l'attenzione per i particolari. E poi il lavoro è tutto a cottimo, i cinesi guadagnano un tanto al pezzo e per questo sono motivati a produrre molti pezzi.

Verso cosa è proiettata la Cina?
Diventerà la potenza egemone del Ventunesimo secolo. I cinesi sono tanti, crescono a una velocità spaventosa e hanno una grandissima determinazione e operosità, come quella che avevamo noi piemontesi quando all'inizio del secolo migravamo in Francia. Certo, ci sono delle grandissime differenze tra una regione e l'altra. Alcune sono molto più arretrate e lo rimarranno. Ma anche nel campo scientifico, nella bioetica il futuro sarà loro, noi abbiamo troppi vincoli: i sindacati, le religioni, le tradizioni. Tutti blocchi che in Cina non esistono.

Che cosa consiglia agli imprenditori italiani che devono chiudere le fabbriche perché non riescono a competere con i prezzi cinesi?
Consiglio di delocalizzare in Cina. E poi bisogna che la gente cominci a capire che occorre lavorare di più, che non possiamo vivere di assistenzialismo come fanno i francesi. I francesi lavorano 1500 ore all'anno, i cinesi 2400.

La Cina si democratizzerà prima o poi?
Speriamo di no, perché il regime che hanno trovato è perfetto. Il paese cresce, gli stipendi crescono, tutto cresce senza grandi squilibri. E non è detto che il modello democratico a cui noi teniamo tanto per i cinesi sia il migliore.

Quanto tempo è durata la sua avventura cinese?
Dura ancora. Io ho venduto l'azienda ma la Defonseca lavora oggi con le stesse fabbriche con cui lavoravamo noi trentacinque anni fa.

(c) Ideazione.com (2006)
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